lunedì 24 novembre 2014

Come l'ha girata lui, questa? - Paolo Morales sul Narrare con le immagini

Partiamo dalla fine. In chiusura di questo Narrare con le immagini, Paolo Morales (sceneggiatore, disegnatore e storyboarder scomparso nel 2013, qui la bio completa) scrive:

“Niente di definitivo. Solo alcuni fatti che generano molte domande e un’ipotesi.”

Credo riassuma molto bene l’attitudine e lo stile con cui ha scritto questo saggio. Parlo di saggio e non di manuale perché Morales lo imposta come una serie di brevissime lezioni in cui smonta immagine dopo immagine alcune sequenze di film notissimi e un po’ meno per spiegare come queste funzionano. Poca teoria, molta pratica e smontaggio.


Certo, Morales spiega la teoria che sta alla base del racconto filmico. Però non si limita a sciorinare cosa siano piani e campi facendo la lista della spesa elencandone i vari tipi. Per ognuno di loro prende una scena di un film e spiega la loro funzione narrativa: perché dopo questo primo piano ci sta meglio un dettaglio? perché questo mezzo busto di quinta sarebbe, in teoria, sbagliato ma qui funziona splendidamente?

Tutto per cercare di rispondere alla domanda che si pone ogni regista: “Come la giriamo, questa?”. Una domanda che apre decine di risposte, alcune giuste, alcune sbagliate.

Una domanda a cui si può invece dare risposta sicura è “Come l’ha girata Lui, questa?”, dove i vari Lui sono Coppola, Kubrick, De Palma e altri pezzi grossi, o anche meno grossi come Jonathan Demme, il regista de Il silenzio degli innocenti. Morales, per esempio, prende la sequenza in cui Clarice/Jodie Foster entra per la prima volta nel manicomio in cui è incarcerato Lecter: fa la conoscenza del(l’antipaticissimo) Dr. Chilton, scende con lui nei meandri dell’edificio fino ai sotterranei dove finalmente si trova faccia a faccia con Hannibal il cannibale. Pochi minuti che Morales disseziona inquadratura dopo inquadrature per dimostrare in che modo le scelte attuate da Demme funzionino per sottolineare il punto di vista di Clarice e aumentare il coinvolgimento del pubblico. Potevano esserci altre soluzioni e scelte? Sicuro. Potevano essere migliori? Non è sicuro. Di sicuro c’è che queste sono state scelte con in mente una funzione ben precisa e quella riescono ad attuarla.



Ma questo è solo uno dei vari esempi che Morales si diverte (e leggendo il volume si percepisce proprio quanto lui si appassioni e diverta nello studiare il racconto per immagini, un bonus non da poco che rende la lettura ancora più interessante) a smontare, sempre sottolineando come la scelta che ogni regista e montatore attua non è detto che sia la scelta migliore in assoluto e nemmeno, magari, la più perfetta a rigor di manuale. Però, scena girata e montata alla mano, è una scelta che ha dato un risultato ottimo.

Quindi pratica pratica pratica, sia quando si scrive/disegna/gira sia quando si studia: guardare un film o leggere un fumetto per godersi la storia è un conto, ma poi se uno vuole capire davvero come raccontare per immagini lo deve pure smontare. Senza dimenticare comunque quel minimo di teoria che sta alla base di un certo modo di raccontare. Come a esempio l’effetto Kuleshov, vecchio come il cucco, teorizzato negli anni ’10/’20, ma ancora alla base del racconto per immagini. Ovvero che il significato di un’immagine cambia a seconda del contesto in cui questa viene inserito: la stessa identica immagine dello stesso attore, con la medesima espressione, cambia e appare diversa a seconda dell’immagine cui viene giustapposta. Si certo, per voi uomini moderni e di mondo è ovvio, ma agli albori del cinema tutto andava imparato e sperimentato passo passo per capire come manipolare l’emozione degli spettatori. E guardando l’esempio usato da Kuleshov e quello successivo di Hitchcock che vedete qua nel post, c’è da chiedersi quanto si sarebbero divertiti oggi a giocare coi meme. 


E “giocare” mi pare sia un attitudine che per quanto non esplicitata da Morales venga un po’ sottintesa nel suo scrivere: ci sono immagini che ci passano per la testa, ci sono metodi per poterle rendere reali, scopriamo quali funzionano e quali no. Spingiamoci oltre il già visto e già fatto e vediamo dove possiamo arrivare. Nell’ultima parte del volume Morales parla di Kill Bill di Tarantino, e analizza una sequenza d’inseguimento presa da Bad Boys II di Bay (sapete quale, quella con le auto lanciate dal camion). Ora, al di là di quello che pensate dei due film e dei due registi, è innegabile che siano due che si divertono in quello che fanno e non si fanno problemi a spingersi sempre più in là nel fattibile. I risultati possono essere molto diversi tra loro, ma la voglia di provare è, credo, innegabile.

Insomma, ‘sto saggio me lo sono proprio gustato. Se siete del tutto digiuni dal linguaggio tecnico del cinema non è un problema: Morales spiega bene e in maniera sintetica la terminologia necessaria per comprendere tutto. Se già masticate un po’ le cose secondo me non vi potete annoiare perché gli esempi analizzati sono così tanti, così diversi e raccontati così bene da potervi dare di sicuro qualche spunto su cui riflettere, o farvi venire voglia di rivedere i film citati per osservarli con occhio più critico. 


mercoledì 5 novembre 2014

Ansia, fatica e immunosoppressori a Lucca Comics&Games - o del perché ci vuole il fisico per reggere una convention di fumetti

Quattro giorni di Lucca Comics&Games sono una prova di resistenza fisica e mentale. Con un sistema immunitario compromesso dagli immunosoppressori come il mio, ancora di più. Nel 2013 ho tracollato il pomeriggio del secondo giorno, prendendomi la mattina del terzo di riposo. E tornato a casa mi ero ripromesso che nel 2014 avrei retto tutti e quattro i giorni.


E ci sono riuscito. Perché, per quanto suoni assurdo, avevo deciso che questa Lucca sarebbe stato un banco di prova per la mia salute, la mia resistenza alla fatica e ad altri aspetti che mi mettono in crisi.

Chiarisco: non posso lamentarmi della mia salute perché, dati clinici alla mano, sono messo bene. E considerato che negli ultimi 10 anni sarei potuto già morire male di cancro per due volte, sono praticamente in eccellenti condizioni fisiche. 

Tra gli strascichi che mi porto dietro a partire dal trapianto epatico del 2008 ce ne sono un paio che mi danno più rogne degli altri. Uno è prettamente fisico e l’altro più psicologico, e credo siano evidentemente collegati tra loro. 
Foto di Sal Abbinanti
Quello fisico è che la mia capacità di reggere la fatica e la conseguente ricarica necessaria per ripigliarmi non è delle migliori. Se fossi un personaggio da GDR o Videogioco, la mia barra dell’energia la vedreste scendere veloce a livello “mi serve una pozione rigenerante” e risalire lenta come la voglia di lavorare il lunedì mattina. E come ogni giocatore sa bene, quando l’energia o i punti ferita sono bassi ti senti il culo stretto stretto stretto perché sai che sei a rischio game over, o come minimo ti tocca riposare o trovare un medikit.

E qua si collega l’altro punto, quello più psicologico.

La consapevolezza di non avere chissà quale resistenza mi mette in una condizione di ansia più o meno costante. Il tormentone “Non è la paura ma è la paura della paura a fotterti” è un cliché che suona come un mantra da motivatore per contrattisti ma è di strabiliante realismo per tutti quelli che soffrono, in varia gradazione, di ansia.

Le mie ansie partono da un piano pratico-organico: ho l’ansia che il rigetto del fegato mi colga all’improvviso, ho l’ansia che il cancro torni, ho l’ansia di un generico malessere dovuto a un’improvvisa precipitazione del livello della mia barra d’energia che mi lasci svenuto in una via senza nessuno a soccorrermi. 

Quest’ultima ansia, quella di essere colpito da un generico “mi sento male” mi ha bloccato parecchio nel periodo post-trapianto. Inutile anatomizzare nei dettagli quell’arco narrativo ma diciamo che per circa due anni mi sono più o meno rinchiuso in casa limitando al minimo la vita sociale e passando molto tempo a chiedermi “Quando succederà?”. L’idea di essere fuori casa, lontano da casa, magari in mezzo a folle pressanti in spazi angusti mi pigliava malissimo.

Folla, spazi angusti, folla, lontananza da casa, folla, fatica. 

Foto di Sal Abbinanti
Se avete anche solo visto le foto di Lucca Comics&Games potete intuire quanto immergermi volutamente in quella situazione sia stata una scelta non dico sofferta, ma di certo non serena, entusiasta o spensierata. E allo stesso tempo è stata una scelta voluta, desiderate e pianificata.

Una volta deciso che sarei andato a Lucca, nel 2013, l’ansia si è accesa e non si è spenta fino al giorno dopo la fiera, quando sono tornato a casina nel mio lettuccio, con i muscoli intrisi di fatica e i nervi che un po’ si scuotevano per gli immunosoppressori e un po’ per la tensione di quattro giorni che defluiva come scariche elettrostatiche.

E tra un tremore, un crampo e qualche interessante interazione immaginata tra suini e divinità, ricordo di aver pensato “Ma chi cazzo me lo ha fatto fare?” e “L’anno prossimo lo rifaccio. Ma ci arrivo meglio preparato.”

Qua nel blog ne parlo molto raramente ma l’allenamento fisico è diventata ormai una routine abbastanza integrata nel mio quotidiano. 5-6 allenamenti a settimana che hanno un effetto benefico sul mio fisico in generale, su alcuni effetti collaterali degli immunosoppressori in particolare (meno tremore, meno crampi, meno insonnia, ne parlo qua) e sull’ansia. Perché, molto banalmente, constatare di essere in grado di fare più trazioni di prima o di pedalare più a lungo di prima mi rende oggettivo, evidente e misurabile uno stato di salute e capacità che la vocina dentro di me non vorrebbe mostrarmi. 

Lucca 2014 l’ho quindi preventivato come un meeting “atletico”: ho tarato i miei allenamenti in modo da arrivare a questa 4 giorni allenato ma non distrutto. Metto “atletico” tra parentesi perché io un atleta non lo sono, ma è per farvi capire l’approccio con cui l’ho dovuta-voluta affrontare per poterla vivere con meno ansia dell’anno scorso. L’ho detto, suona tutto un po’ ridicolo: vai a una fiera di fumetti per lavoro e lo affronti che sembra parli dei mondiali di triathlon. Il punto è che io non ci vado per lavoro. 

Ora, sia chiaro, per chi scrive, in particolare fumetti, Lucca è necessaria. Si conosce gente, si progetta con gente, si buttano idee. Ma io mentirei se vi dicessi che il lavoro è stata la motivazione principale dell’esserci stato nel 2013 e di nuovo quest’anno.

Per me è stato il desiderio di testarmi sul campo e vedere come reggo. Il lavoro, i contatti, le PR, l’aver incontrato nuovi e vecchi amici, mangiare panini buonissimi, vedere fumettisti fare cose strepitose, sentire gente che fa un mestiere che ama parlarne con entusiasmo sono cose bellissime che mi hanno dato molto. La generale atmosfera di festa e un po’, come ha detto un mio amico, da Spring Break americano, è strepitosa, ti esalta, ti fa venire voglia di fare e bregare.

Foto di Sal Abbinanti
Ma a spingermi a voler andare a Lucca, per me, erano il desiderio di non farmi bloccare dall’ansia e quello di vedere quanto regge questo corpo rattoppato e un pochino zombie. 

Su questi due fronti posso solo che dirmi contento. 
Avrei voluto sentire meno fatica? Si. 
Avrei voluto non sentire così spesso la vocina dentro di me chiedersi “Quando succederà?”? Si. 
Avrei voluto rompere meno i maroni ai miei compagni di viaggio su questi punti? Molto. 
Avrei voluto girare di più, incrociare più persone, fare di più? Moltissimo.

Si poi ci sono i contatti di lavoro, i progetti, le idee.

Ma che te ne fai di un lavoro se poi non esci di casa e ti lasci andare al vittimismo e al “Quando succederà?”?

Non è che consideri la questione risolta ma, di nuovo, dati alla mano sto meglio di prima e questo è d’aiuto.

Per cui ora ho 12 mesi per arrivare a Lucca Comics&Games 2015 più in forma.


Ci vediamo l’anno prossimo in mezzo alla folla.