Questo post è interessante solo se vi piacciono moltissimo i fumetti, se li volete fare o se volete capirli meglio. No, non sono consigli elaborati dal sottoscritto e nemmeno esempi del mio lavoro. Però ho letto un volume d’analisi che ho trovato ben fatto e pieno di spunti, si intitola Panel Discussions, edito dalla TwoMorrows Publishing.
Il curatore, Durwin Talon, ha avuto la buona idea di rendere la cosa molto pragmatica e circoscritta, ponendo domande tecniche su problematiche precise che vengono affrontate dai fumettisti nel loro creare vignette e tavole.
È una raccolta di conversazioni con una riga di autori molto molto bravi e dallo stile diverso tra loro.
Tanto per darvi un’idea della qualità degli autori, ci trovate dentro tra gli altri Mike Mignola, Will Eisner, David Mazzucchelli, Walter Simonson, Mike Wieringo. Più o meno tutti autori che bazzicano il mondo dei supereroi, ma comunque con esperienze molto varie, dalla pittura a olio, all'illustrazione pubblicitaria, passando per le autoproduzioni, l'underground e lo storyboarding. Vi lascio in fondo al post la lista completa.
Ogni capitoletto è dedicato a un singolo autore: Talon lo introduce brevemente, lo fa parlare di teoria del racconto a fumetti e poi si arriva alla ciccia, il vero bonus di questa pubblicazione: spiegare come mai l’autore ha ideato e disegnato una o più tavole in un certo modo. Con la tavola riprodotta e, in molti casi, con le fasi antecedenti: schizzi preparatori, layout, matite, chine e via così.
Per cui potete guardare le tavole scelte da Mignola come esempio e capire come mai una vignetta molto piccola assume un valore molto grande all’interno della tavola. Non è solo quanto disegnato, ma il modo in cui è stato disegnato, quali colori sono stati usati, come il tutto è bilanciato con le altre vignette che formano la tavola.
Scoprite come mai autori come Eisner considerano tutto ciò che fa parte della tavola un segno essenziale al racconto: i baloon, le onomatopee, i font stessi dei dialoghi. Come ha deciso di manipolarli tutti, in maniera anche piccola, per far passare il ritmo, l’atmosfera e l’emozione che si è prefisso ideando le sue storie. E come mai decise di aprire le sue storie di Spirit con una splash-page.
Van Fleet approfondisce in che modo l’uso del colore non è semplice riempitivo degli spazi ma freccia all’arco di ogni fumettista che voglia sottolineare determinate emozioni o persino concetti. Talon infatti non si fissa su un solo aspetto del fare fumetti ma bene o male copre tutto quanto concerne la parte visuale del linguaggio. Quindi ogni tanto vi beccate anche mini-lezioni sulla teoria del colore, sull'equilibrio tra bianchi e neri o su come sia efficace l'inchiostrazione di Dick Giordano.
E molto spazio lungo il volume viene dedicato al concetto di tavola e a quello che in italiano viene spesso definito “gabbia” o “griglia” delle vignette: c’è chi trova la rigidità della gabbia comoda, chi preferisce usarla solo come punto di partenza e altri che ne farebbero volentieri a meno.
Ora, se cercate un volume che parli di sceneggiatura, trama, narrativa e cose così, no, niente, volume sbagliato. Anche se per me è sempre molto interessante vedere la sceneggiatura scritta e la tavola finita, come capita nei capitoli dedicati a Randy Stradley e Wieringo, il punto di forza di Panel Discussions è proprio quello di focalizzarsi sul design dei fumetti. Il che credo possa essere solo un bene: io vivo nella convinzione che chi racconta per immagini, anche se è solo uno sceneggiatore, può solo giovarsi dallo studiare molto gli aspetti e le tecniche più puramente visive del fumetto (o del cinema). Alla peggio uno si trova in mano maggiori strumenti d'analisi per capire quello che legge e vede. Nella migliore delle ipotesi può riuscire a scrivere sceneggiature migliori e ridurre al minimo richieste impossibili per i disegnatori.
Volendo trovargli un difetto: se le tavole fosse di maggiori dimensioni e la stampa un filo migliore, sarebbe meglio. Ma già così è tanta roba e molto utile.
Comunque su google books trovate una sostanziosa anteprima, praticamente tutto il capitolo su Mignola, qua, e su Issu altre pagine da sfogliare, qua.
Vi ho parlato di Panel Discussions, edito da TwoMorrows Publishing.
Triple Threat Watch: in cui vi parlo di tre film in qualche modo collegati tra loro. Qua trovate l'intro al TTW, e qua sotto la terza entrata, dedicata a Mad Max Beyond the Thunderdome, del 1986. Qui la prima e qui la seconda e qui la terza.
Tre film entrano, uno solo ne
esce!
E bene o male credo siamo
tutti d’accordo nel dire che a uscirne vincitore è il secondo, Road Warrior.
Però l’idea del Triple Threat
Watch non è tanto quella di decretare un vincitore, ma di rimuginare su film
che per un motivo o per l’altro hanno qualcosa di simile. Qui abbiamo lo stesso
protagonista che si muove nello stesso mondo. Con l’interessante aggiunta che
il mondo in cui si muove cambia intorno a lui, e non cambia mica poco.
Guardare i tre film uno via
l’altro l’ho trovato più interessante di quanto pensassi. Notare lo scarto in
avanti che George Mille ha cercato di dare a ogni pellicola penso possa
mostrare un approccio al racconto seriale che mi pare non sia molto battuto, in
special modo negli ultimi anni.
Se ci si pensa le differenze
che abbiamo tra il primo e il secondo film sono così forti che potrebbero quasi
essere storie del tutto separate. Anzi, in un certo senso è così. A occhio
direi che il secondo film sia una storia che sta in piedi da sola, contenuto in
se stesso. Forte della sua trama ridotta all’osso che rientra nella lunga e
sfaccettata tradizione del:
uno straniero arriva in una
città piena di gente onesta funestata da un gruppo di cattivi, e fa il culo ai
cattivi
si tratta di una storia in
cui tutto viene giocato su atmosfera, ambientazione, interpretazioni e capacità
del regista di rendere tutto interessante e affascinante. Anche togliendo
l’intro in flashback e il voice-over che ci fanno sapere il passato di Max, non
perdiamo un granché. Un po’ perché il film ci mostra molto bene come funzionano
le cose in questo mondo, un po’ perché è il comportamento di Max all’interno
della pellicola a farci sapere con chi abbiamo a che fare.
Certo, sapere che ha perso la
famiglia e come aggiungono qualcosa di tragico, ma come dice Pappagallo
“Abbiamo tutti perso qualcuno, non pensare di essere speciale.”.
E in effetti Max non è un
personaggio particolarmente speciale. Non ha poteri, non ha capacità che lo
rendano diverso dagli altri, fatta eccezione per le qualità che ogni eroe deve
avere: non molla, è furbo, preparato. Ma, a parte l’orrendo mullet che gli
spunta nel terzo, è un uomo normale che si muove in un mondo assurdo.
Che è l’altra cosa ad avermi
colpito nel rivedere i film. Pur non potendolo considerare un eroe, dato che
come ci ricorda lui è li solo per la benzina, Max rimane tra i personaggi più
“eroici” del film. Ma non tanto per coraggio o sprezzo del pericolo superiore
alla norma, quanto per l’assenza di certe caratteristiche nella non-società che
lo circonda.
Nel primo film gira le spalle
alla polizia.
Nel secondo aiuta i villici
per la benzina prima, e poi perché non ha altra possibilità di sopravvivenza.
Nel terzo, ok, aiuta dei
bambini, ma non bisogna essere eroi per trovare discutibile che dei bambini
vengano stuprati e mangiati. E forse non in questo ordine.
Altra evoluzione evidente è
l’intrusione dell’umorismo a partire dalla seconda pellicola. Se nella prima
l’unica cosa che possa strappare una risata è l’aspetto grottesco di alcuni
personaggi e di alcune situazioni, che sfocia comunque più da un fastidio che
si prova guardando persone fare qualcosa che stride, nel secondo l’ironia è più
buffa.
Pensate a quando il pilota
dell’autogiro è tenuto sotto minaccia dal cane di Max, o sempre il pilota cerca
di sedurre LaBella™ dei villici. Sono moneti brevi, ben calibrati, che non
scalfiscono mai la violenza di tutto ciò che accade. Al contrario del terzo
film, in cui l’umorismo non è più solo momento eccezionale tra un mare di
dolore e nichilismo, ma compagno dell’azione che porta la pellicola più vicina
a quel concetto di action moderno a la Commando.
Il che mi porta a notare come
nei primi due film non ci siano praticamente i tipici one-liner da eroe d’azione,
che scarseggiano pure nel terzo. E questo perché Max è, per lo meno in queste
tre pellicole, un giustizie vecchia scuola e non un action-figure che se gli
tiri la cordicella spara col bazooka come fosse un revolver.
Insomma, per me è stata una
re-visione molto più fica di quanto m’aspettassi che mi ha solo fatto aumentare
allo stesso tempo la scimmia e la paura di vedere Fury Road.
Triple Threat Watch: in cui vi parlo di tre film in qualche modo collegati tra loro. Qua trovate l'intro al TTW, e qua sotto la terza entrata, dedicata a Mad Max Beyond the Thunderdome, del 1986. Qui la prima e qui la seconda.
Mad Max Beyond the Thunderdome
è un film strano, perché è fondamentalmente una commedia post-apocalittica per
tutta la famiglia. Messo vicino ai suoi due predecessori (e dal poco che ho
visto anche dal suo successore Fury Road) stride fortissimo per quanto riguarda
il tono e l’atmosfera generale. Però è comunque coerente con i suoi fratelli,
se pensiamo all’ambientazione, ai personaggi e alle regole che li governano.
Provo a spiegarmi.
Ci sono di nuovo quegli
elementi che hanno reso grandi i due film precedenti e che accenno solo.
Le scenografie sono efficaci e
nonostante siano limitatea pochi set ci
danno comunque un’idea di profondità e coerenza. Bartertown, la boom-town in
cui è ambientato metà film, è sporca, polverosa e sovrappopolata. Ne vediamo
poche parti ma non è difficile immaginarsi quelle che non vediamo, grazie
all’idea di Miller di farci vedere l’essenziale: le “miniere” di merda di
porco, il “palazzo” da cui regna con occhio feroce Auntie, il mercato in cui si
fanno e disfano le esistenze dei suoi cittadini e il Thunderdome. E il
Thunderdome, arena in cui due uomini entrano per diramare una disputa e da cui
solo uno ne esce vivo e, quindi, nel giusto si è accaparrato non soltanto il
titolo del film ma un posticino nel cuore di molti appassionati. Una
semi-cupola fatta solo di un’intelaiatura di acciaio ma che grazie all’occhio
di regista e montatori sembra più grande, minacciosa e cupa di quanto sia. Lo
scontro tra Max e Masterblaster a cui assistiamo sembra quasi uno degli
inseguimenti dei primi film: tirato, veloce, eccitante e, ovviamente, alla
morte.
I costumi, come sempre,
impressionano per come riescano a colpire lo spettatore e rendere distinti e
riconoscibili i personaggi. Il MasterBlaster è un gigante di carne, cuoio,
borchie e violenza, roba che non mi stupirei se avesse dato un paio di idee ai
creatori di Silent Hill nella creazione di Piramid Head (ma qua la sparo
proprio a cazzo, sia chiaro). IronBar, il braccio destro di Auntie, grazie a
una semplice testa di manichino e una parrucca risulta inquietante e ridicolo
allo stesso tempo, più grande della sua minuta altezza e comunque giusto come
capo delle guardie, una riga di amazzoni guerriere già alte di loro a
prescindere dalla creste punk e dalle corazze da giocatori di football. Il
pilota dell’aereo sembra uscito da un fumetto di Moebius (e per quanto non sia
sicuro che i tempi collimino, la sua mise è troppo simile a quella del
Cacciatore per non far venire il dubbio su chi ha influito chi), accompagnato
da suo figlio, una copia in miniatura che risulta davvero minacciosa quando è
armato del moschetto troppo lungo per lui. Persino al ragazzino che oggi
definiremo qualcuno definirebbe emo (e lo farebbe per scarsezza di lessico e
cattiva comprensione dei contesti) che passa il tempo a far parlare una bambola
di Bugs Bunny basta apparire in scena un paio di volte per incasellarsi alla
perfezione in queste lande desolate e assurde.
E i mezzi di trasporto perdono
qualsiasi pretesa di realismo, sciolti dalla riconoscibilità dei modelli di
partenza, per dare sfogo ai preparatori di auto di creare tutto ciò o quasi gli
passa per la testa. Davvero roba che o la vedete o non ho modo di farvi capire
quanto sia fica, senza senso ma comunque risulti giusta col film in cui
rombano.
Tutti aspetti che io trovo
ottimi e che continuano a colpire a segno anche a distanza di anni. Però se
queste sono comunque variazioni su quanto visto prima, a rendere il film
un’anomalia rispetto ai precedenti sono il tono e l’attitudine della pellicola.
Più su dicevo commedia per
tutta la famiglia, e non è un’esagerazione. Rivedendo i film in sequenza salta
all’occhio come la violenza sia stata ammorbidita mentre sia stato sottolineato
l’umorismo. Quando Max arriva a Bartertown, per entrarvi deve consegnare le
armi. Lo fa, ma lo fa tirando fuori un numero davvero ridicolo di armi da sotto
i suoi vestiti, sotto gli occhi incuriositi degli astanti. Quando viene
minacciato da una guardia che rotea le sue lame, Max spara facendogli saltare il
ciuffo, quando Indiana uccide senza pensarci due volte. Che c’entra, Indiana?
La scena è evidentemente ricalcata su quella più famosa di Indiana Jones, ma
l’assenza di uccisione dichiara gli intenti.
Quando Max si scontra per la
prima volta con IronBar il tutto sembra uno sparring, e persino quando siamo
nel Thunderdome e Max combatte per la propria vita, tra faccette buffe e
sbuffate siamo lontani dalla ferocia di un Toecutter o un Wez. Quando
Masterblaster viene ucciso, a ucciderlo sono i cattivi del film, e la scena è
più patetica che tragica, una bella differenza rispetto alle uccisioni quasi
sottotono viste nelle altre pellicole.
E a proposito del Thunderdome:
mi ero del tutto dimenticato del MC, il presentatore, l’imbonitore del mercato,
quel Dr. Deelgood che introduce i due uomini nel ‘dome esattamente come si
farebbe per due pugili, o due wrestler, e poi affabula la folla quando Max è
costretto a giocare alla ruota della fortuna, per scoprire quale fato gli
spetta dopo che Auntie lo accusa di non aver rispettato i patti. Ci sono
persino le vallette che mostrano il funzionamento della ruota. Queste
osservazioni solo per sottolineare che quando Max viene bandito da Bartertown e
arriva dove ci sono i bambini, la cesura rispetto a prima c’è, ma è molto meno
improvvisa di quanto ricordassi. Non dico che la cosa funzioni in maniera
eccellente, ma non è come se passassimo all’improvviso dallo stupro della
coppia del primo all’oasi coi bambini perduti, ecco.
Da qui in poi il senso di
avventura per famiglie piglia accelerazione e le cose vanno come devono andare.
Si tratta di un pigiare sul divertimento più scanzonato che sale di giri in
maniera veloce ma senza strattoni, e che viene ben dichiarato e reso evidente
nell’ultima sequenza, in cui finalmente arriva quello che un po’ tutti ci si
aspetta da un film di Mad Max: l’inseguimento. Pure qua, inutile ripetere
quanto sia fico, ben fatto, per una volta senza le maledette accelerazioni di
frame e ancora oggi regga benissimo botta. E pure qua si vede bene come “meno
violenza più commedia” sia stato il mantra della produzione.
Nessun buono muore, al massimo
un ferito. I cattivi muoiono, ma tutto sommato non in maniera brutale. E
Ironbar, che lungo tutta la pellicola è vittima di gente che lo mena in maniera
più o meno buffa, qua diventa un Buster Keaton post-apocalittico e vende cara
la pelle grazie a prodezze ginniche saltando da un auto all’altra.
Insomma, non c’avevo mai fatto
caso, forse distratto dall’osceno mullet che Max porta per tutta la prima parte
del film, ma Beyond the Thunderdome è sostanzialmente The Goonies dopo
l’olocausto nucleare. Che di per se non è un problema ma paragonato agli altri
due, ecco, non ne esce proprio fortissimo. Ci sarebbe da temere per il quarto,
ma se questo Beyond era targato PG-13 (se non masticate sigle sul rating
censorio, significa “per bambini accompagnati”) mentre il prossimo Fury Road
sarà un bel R come i primi due (ovvero, niente bambini in sala).
Anche oggi vi lascio con un
commento musicale che ha senso ma anche no, vi basta vedere il video per capire
perché. E al di là del video, il pezzo è un pezzone. E domani il post-watch, per tirare le somme e dire cose che mi sono dimenticato di dire.
Triple Threat Watch: in cui vi parlo di tre film in qualche modo collegati tra loro. Qua trovate l'intro al TTW, e qua sotto la seconda entrata, dedicata a Mad Max del 1981. Qua invece la prima parte.
Guardando Mad Max: Road Warrior
mi ha colpito da come il regista, George Miller, sia riuscito a fare
un film molto diverso dalla prima pellicola pur mantenendone intatto lo spirito
e anzi irrobustendone il mito senza andare ad appesantirlo. Azzardo un
paragone: per certi versi c’è la differenza che troviamo tra l’Alien di Ridley
Scott e l’Aliens di James Cameron. Si tratta sempre di xenomorfi, ma il secondo
film è più grande, più chiassoso e più cool.
Gran parte del merito lo si
deve a scenografi, costumisti e maghi della modificazione dei mezzi. Così come
nel primo film, non sono certo la trama o la sceneggiatura, entrambe risicate ed essenziali, a
renderla una storia affascinante. Se a distanza di 30 anni ne parliamo ancora,
lo dobbiamo alla capacità di Miller di mettere in scena immagini forti, e non
mi riferisco solo alla violenza di certe morti o alla perizia degli
inseguimenti.
Di nuovo ce l’ho con
l’efficacia con cui i personaggi sono resi caratteristici, curiosi e,
incredibilmente, credibili in questo mondo senza più regole civili. Tra tutti
giganteggia senza dubbio Lord Humungus, colosso dal fisico da bodybuilder, poco
vestito con perizoma in cuoio e borchie, dal volto sempre celato da una
maschera da hockey tra i cui fori intravediamo cicatrici. Di lui sappiamo poco
o nulla. E’ a capo di una gang di criminali folli e, per quanto ferino e
violento, sembra abbia un suo codice d’onore: quando decide di conquistare
un’oasi in cui si trova una pompa di petrolio, da la possibilità ai suoi
abitanti di scappare senza decimarli. A giudicare dal suo revolver e pochi
dettagli come una medaglia e una foto, potrebbe essere un militare che la
guerra e l’apocalisse hanno reso folle, o solo disperato nel trovare un ordine a cui votarsi. Ma sono cose che lo
spettatore può solo desumere, non ci sono pippotti, flashback o infodump di sorta.
Come il vero rapporto che corre
tra Humungus e Wez, il suo secondo in campo, il suo “dog of war” che ha preso
in antipatia personale Max. Wez, con la sua cresta punk, la balestra da polso e
la corazza da football non perde tempo con ultimatum e proposte, tanto meno
quando gli ammazzano il compagno di viaggio, biondino ed efebico, per certi
versi una versione rinnovata del Bubba del primo film. E se nel primo Mad Max l’eventuale omosessualità della gang veniva solo suggerita, qua gli accenni
sono allo stesso tempo sottolineati ma non esplicitati. Non solo Wez e il
biondino sembrano una coppia, ma Humungus ha dato nomi precisi ai suoi uomini,
tra la divisione “Gayboy berserkers” e quella “Smegma Crazies”. Certo, il tono
del film è corroborato da una sottile ironia e umorismo, ma tra immaginario da
biker inguainato in cuoio e borchie e il rapporto d’odio amore tra i loro
membri, credo che il sottotesto sia voluto e cercato.
L’equilibrio tra sottile
umorismo e la ferocia della violenza inscenata viene giostrato molto bene lungo
tutta la pellicola. Per quanto esplicita, cruda e abbondante mi pare che la
violenza non passi mai dalla parte del “così esagerata da essere divertente e
innocua” ma mantenga sempre bene la sua valenza di cosa disturbante, fastidiosa
e sbagliata. In questo i momenti divertenti sono ben dosati, in buona parte
sulle spalle del comic relief della pellicola, quel pilota dell'autogiro che
tenta di derubare Max all’inizio del film, scoprendo subito di avere avuto una
cattiva idea. Ennesimo personaggio, per altro, che grazie a un costume
azzeccato, un mezzo di locomozione ridicolo e una dentatura apocalittica,
rimane ben definito, nonostante di lui non si sappia nemmeno il nome ne,
tantomeno, il passato. In questo aiuta la mimica e recitazione del suo
interprete, mai davvero comica o buffa ma sempre quel tanto fuori sincrono
rispetto al dramma cui assiste da aggiungere un tocco di ridicolo al grottesco
che lo circonda.
Le interpretazioni sono
un'altra freccia all’arco di Miller, che capisce bene di non avere in mano un
dramma esistenzialista ma un film d’azione i cui personaggi non vanno per il sottile nemmeno quando dichiarano le loro azioni. Lord Humungus che, armato di
microfono, si presenta agli abitanti dell’oasi con fare enfatico cercando di
essere un uomo ragionevole, come un politico a un comizio, oppure Wes che
soffia e sbraita come un animale sono i nipoti degenerati del Toecutter del
primo film. Per contralto abbiamo Max, sempre dimesso, sottotono, quasi spento,
ingrigito e impolverato da anni passati sulla strada in cerca di benzina e poco
altro.
Se nel primo film Max è solo un
vigilante, nel secondo non è neppure più questo. È un uomo solo, senza niente,
in cerca di niente. Quando incappa nell’oasi è interessato solo alla benzina,
ed è quello che chiede come pagamento per aiutarne gli abitanti. Se combatte
prima con Wez e poi con tutta la gang di Humungus, è come mercenario. E quando verso la fine del film si unisce ai villici, lo fa solo perché non ha altra
possibilità di sopravvivere. Nonostante i momenti leggeri del film, il Max di
Road Warrior è forse ancora più cinico, disilluso e senza speranza del primo. Si ha l'impressione che a muoverlo non siano ne il senso di giustizia e neppure più quello di vendetta ma solo la sopravvivenza.
Ma possiamo parlare di Road
Warrior senza parlare di auto, inseguimenti e azione? Come nel primo, si tratta
di elementi che ancora reggono benissimo il passare del tempo e che, di nuovo,
hanno la loro ragione d’essere come momenti per portare avanti la storia e
farci capire meglio chi siano davvero i personaggi, non solo sboronate per gli
stuntmen, che comunque si meritano ogni plauso, o un vezzo di Miller. In un ambiente in cui o guidi o muori e in cui la benzina equivale alla vita, avere cilindri e saperli usare equivale ad avere la spada e saperla calare nel modo giusto. E come
nel primo abbiamo di nuovo quelle cacchio di accelerazioni dei frame che
rovinano un po’ il tutto. Una scelta che davvero fatico a capire ma è solo
qualche secondo in una novantina di minuti tiratissimi, in cui il ritmo
funziona a mio avviso meglio rispetto al film del ’79, lasciando poco spazio
per respirare, e quando si respira lo si fa sempre chiedendosi cosa sta per
capitare.
I mezzi, così come i costumi,
sono poi il fiore all’occhiello della pellicola: auto e moto modificate in ogni
modo per affrontare i rigori del deserto e degli scontri. Mezzi che per quanto
risultino sopra le righe danno comunque l’idea di essere letali e coerenti con
la follia del tempo in cui vivono i loro piloti, sempre a un passo dal rimanere
senza benzina e quindi senza vita. Una coerenza estetica che ha lasciato, come
dicevo, il segno e ha colpito creativi di tutto il globo e di vari ambiti.
Tralasciando la miriade di film che si sono ispirati a Mad Max, e senza
approfondire quanto i creatori di Ken Shiro abbiano preso dai cattivi di Max
per il loro esperto di arti marziali, mi piace ricordare l’influenza che Miller
ha avuto nel mondo del wrestling.
Magari li conoscete come Legion
of Doom, magari li conoscete come Road Warriors, oppure con i loro nomi singoli
di Hawk e Animal. Fatto sta che non hanno mai nascosto dove hanno trovato
ispirazione per la loro gimmick, a partire dal nome scelto, e sono diventati
uno dei tag team più blasonati di sempre nel wrestling. Vi lascio, come bonus
musicale, con il loro theme (se ve lo state chiedendo, si, i wrestler hanno la
sigla, quando entrano sul ring), e vi aspetto domani col terzo post per il
nostro Triple Threat Watch. Riuscirà Max a superare il suo nemico più feroce,
il PG-13?