Temo che questo post sarà un po’
confuso, ma mi gira in testa da tempo e spero che scriverlo mi chiarisca le
idee ed mi aiuti a spiegarmi con gli altri.
Qualche tempo fa ho linkato nei
vari social network la seguente citazione:
"I have had cancer, and had
all too many hours, days and weeks of hospital routine robbing me of my
dignity. Although people in my situation are always praised for their courage,
actually courage has nothing to do with it. There is no choice." (RogerEbert)
che in italiano suona più o meno:
“Ho avuto il cancro, e ho avuto
troppe ore, giorni e settimane di routine ospedaliera a rubarmi la dignità.
Anche se le persone nella mia situazione sono sempre lodate per il loro
coraggio, in realtà il coraggio non ha nulla a che vedere con questo. Non c’è
scelta.”
Più di un amico e amica mi ha
detto di non essere d’accordo con questa frase, e di non capire perché invece
io, che il cancro l’ho avuto, la sottoscriva parola per parola. Trattandosi di
una situazione estrema, mi rendo conto che la reazione di ciascuno è diversa,
sia sul momento, che sul lungo termine. Quindi sia chiaro che quando penso che
il coraggio non c’entri nulla con l’affrontare il cancro, parlo del mio cancro,
della mia persona e della mia esperienza personale. Altre persone la vivono in
maniera diversa.
Credo che il succo sia racchiuso
nelle ultime quattro parole : “There is no choice/Non c’è scelta.”
Quando mi hanno diagnosticato il
cancro la prima volta, mi hanno spiegato per filo e per segno cosa avrei dovuto
fare: operazione per asportare circa l’80% del fegato, che era ripieno di
cancro, e passare i 12 mesi successivi assumendo farmaci giornalmente. A quel
punto mi chiesero se avevo intenzione di procedere.
“E se non lo faccio?”
“Muori.”
Ora, non so voi, ma se da una
parte c’è un’offerta per una probabile guarigione, e dall’altra la discreta
certezza di morire mangiato vivo da un tumore, scegliere la probabile
guarigione non mi pare una scelta coraggiosa, quanto una semplice necessità.
Oltretutto, per quanto tenda a
vedere il ridicolo e l’assurdo in ogni situazione, come quando mi dissero
“Lei ha un tumore maligno di
1,5kg che ha invaso l’80% del suo fegato, ma per il resto il fegato è del tutto
funzionante e sano!”
non significa che non abbia avuto
o abbia ancora paura. Perché per quanto si stringano i denti, si ponderi la
situazione in maniera il più possibile distaccata e ci si dica che andrà tutto
bene, la frase “Lei ha un tumore” alza il volume della paura sulla tacca
dell’11.
Quando questa viene seguita da
frasi come “E’ operabile” “Ci possiamo lavorare” “Ci sono farmaci che danno
buone probabilità” la paura s’abbassa un po’ ma rimane li come una nebbia di
piombo che ti attraversa i polmoni. Nel mio caso poi i polmoni non si potevano
espandere del tutto perché il fegato era così ingrossato da spingere sul diaframma
lasciandomi sempre col fiato corto.
Occluso da questo senso di
oppressione, la sensazione di coraggio penso non mi abbia mai nemmeno sfiorato
di striscio. Forse quello che ho provato e che chi mi è stato intorno ha preso
per coraggio è stata solo lucidità e assenza di tentennamento.
Sapere con precisione cosa mi
avrebbero fatto i dottori e i chirurghi mi ha dato una certa illusione di avere
la situazione sotto controllo. Credo sia questa ricerca di risposte che tolgono
i dubbi ad avermi portato negli ultimi anni a cercare informazioni su cancro,
trapianto e strategie di cura ad essi correlate in maniera che mi rendo conto
essere un filo ossessiva. Ma ho scoperto che avere una risposta ai dubbi di chi
mi sta accanto, dubbi che a volte non vengono in mente nemmeno a me, mi è di
aiuto a credere che ci sia una via all’accettazione di quanto mi è successo e a
una convivenza con lo stato di non essere del tutto sano.
Questa serie di pensieri e
reazioni si è ripresentata con la recidiva di tumore e la necessità di
sottopormi al trapianto. E sottolineo nuovamente: necessità.
La seconda diagnosi, la recidiva,
il ritorno del cancro oscuro, è stata una botta ben peggiore della prima. Sia
perché è stata del tutto asintomatica, sia perché dopo un paio d’anni dalla
prima operazione cominciavo a sentirmi bene e a pensare che tutto sommato fosse
finita.
Di nuovo, quando mi dissero che
l’opzione era il trapianto, non mi sentii per nulla coraggioso ad accettare. Di
nuovo, la lucidità e la caduta di quasi ogni tentennamento mi si sono infilati
dentro insieme all’oppressione. E come la prima volta, ho cominciato a
ricercare in rete tutto quanto potevo sapere su trapianto, statistiche di
riuscita dell’operazione, percentuali di sopravvivenza a breve e lungo termine
e il racconto di esperienze dirette di chi ci è passato.
Anche nel periodo pre e post
trapianto mi sono sentito dare del coraggioso e di nuovo ho vissuto questi
commenti in maniera combattuta. Da una parte comprendo il desiderio di chi ci è
vicino di dare in qualche modo il proprio supporto, ma dall’altra sentivo come
questo termine fosse fuorviante.
Forse è perché ho problemi con il
termine coraggio e la sua aura di romantico ardimento, considerando invece gli
atti cosiddetti coraggiosi semplicemente azioni necessarie che per fortuna
qualcuno si prende la briga di compiere.
Ad aver dimostrato davvero
coraggio sono semmai le tre persone che mi hanno detto chiaro e tondo che in
caso di necessità si sarebbero offerte di tentare la strada del trapianto da
vivente. Questo significa assumersi un rischio alto sia nel momento
dell’operazione, sia dover affrontare il dubbio di un qualsiasi tipo di
complicanza sul medio e lungo termine. Rischi decisi per salvare un’altra
persona e non se stessi. Eventi necessari ed estremi che portano fuori
l’intimità di una persona e forse la sua visione di cosa sia giusto e sbagliato
fare.
Io invece ho solo deciso di
salvare me stesso in entrambe le occasioni, afferrando le opportunità che mi si
sono presentate davanti. Non credo si tratti di coraggio ma di semplice istinto
di sopravvivenza. Il coraggio, per quanto sia un concetto su cui ho idee
contrastanti, è altra cosa.
Come dicevo a inizio post temo di
non essere molto chiaro. Ma sono pensieri che mi frullano per la testa da anni
e preferisco tentare di chiarirmi parlandone pubblicamente che rischiare che mi
frullino il cervello.