giovedì 3 maggio 2012

Cancro e trapianto non mi rendono coraggioso.


Temo che questo post sarà un po’ confuso, ma mi gira in testa da tempo e spero che scriverlo mi chiarisca le idee ed mi aiuti a spiegarmi con gli altri.

Qualche tempo fa ho linkato nei vari social network la seguente citazione:

"I have had cancer, and had all too many hours, days and weeks of hospital routine robbing me of my dignity. Although people in my situation are always praised for their courage, actually courage has nothing to do with it. There is no choice." (RogerEbert)

che in italiano suona più o meno:

“Ho avuto il cancro, e ho avuto troppe ore, giorni e settimane di routine ospedaliera a rubarmi la dignità. Anche se le persone nella mia situazione sono sempre lodate per il loro coraggio, in realtà il coraggio non ha nulla a che vedere con questo. Non c’è scelta.”

Più di un amico e amica mi ha detto di non essere d’accordo con questa frase, e di non capire perché invece io, che il cancro l’ho avuto, la sottoscriva parola per parola. Trattandosi di una situazione estrema, mi rendo conto che la reazione di ciascuno è diversa, sia sul momento, che sul lungo termine. Quindi sia chiaro che quando penso che il coraggio non c’entri nulla con l’affrontare il cancro, parlo del mio cancro, della mia persona e della mia esperienza personale. Altre persone la vivono in maniera diversa.

Credo che il succo sia racchiuso nelle ultime quattro parole : “There is no choice/Non c’è scelta.”

Quando mi hanno diagnosticato il cancro la prima volta, mi hanno spiegato per filo e per segno cosa avrei dovuto fare: operazione per asportare circa l’80% del fegato, che era ripieno di cancro, e passare i 12 mesi successivi assumendo farmaci giornalmente. A quel punto mi chiesero se avevo intenzione di procedere.

“E se non lo faccio?”

“Muori.”

Ora, non so voi, ma se da una parte c’è un’offerta per una probabile guarigione, e dall’altra la discreta certezza di morire mangiato vivo da un tumore, scegliere la probabile guarigione non mi pare una scelta coraggiosa, quanto una semplice necessità.

Oltretutto, per quanto tenda a vedere il ridicolo e l’assurdo in ogni situazione, come quando mi dissero

“Lei ha un tumore maligno di 1,5kg che ha invaso l’80% del suo fegato, ma per il resto il fegato è del tutto funzionante e sano!”

non significa che non abbia avuto o abbia ancora paura. Perché per quanto si stringano i denti, si ponderi la situazione in maniera il più possibile distaccata e ci si dica che andrà tutto bene, la frase “Lei ha un tumore” alza il volume della paura sulla tacca dell’11.

Quando questa viene seguita da frasi come “E’ operabile” “Ci possiamo lavorare” “Ci sono farmaci che danno buone probabilità” la paura s’abbassa un po’ ma rimane li come una nebbia di piombo che ti attraversa i polmoni. Nel mio caso poi i polmoni non si potevano espandere del tutto perché il fegato era così ingrossato da spingere sul diaframma lasciandomi sempre col fiato corto.

Occluso da questo senso di oppressione, la sensazione di coraggio penso non mi abbia mai nemmeno sfiorato di striscio. Forse quello che ho provato e che chi mi è stato intorno ha preso per coraggio è stata solo lucidità e assenza di tentennamento.

Sapere con precisione cosa mi avrebbero fatto i dottori e i chirurghi mi ha dato una certa illusione di avere la situazione sotto controllo. Credo sia questa ricerca di risposte che tolgono i dubbi ad avermi portato negli ultimi anni a cercare informazioni su cancro, trapianto e strategie di cura ad essi correlate in maniera che mi rendo conto essere un filo ossessiva. Ma ho scoperto che avere una risposta ai dubbi di chi mi sta accanto, dubbi che a volte non vengono in mente nemmeno a me, mi è di aiuto a credere che ci sia una via all’accettazione di quanto mi è successo e a una convivenza con lo stato di non essere del tutto sano.

Questa serie di pensieri e reazioni si è ripresentata con la recidiva di tumore e la necessità di sottopormi al trapianto. E sottolineo nuovamente: necessità.

La seconda diagnosi, la recidiva, il ritorno del cancro oscuro, è stata una botta ben peggiore della prima. Sia perché è stata del tutto asintomatica, sia perché dopo un paio d’anni dalla prima operazione cominciavo a sentirmi bene e a pensare che tutto sommato fosse finita.

Di nuovo, quando mi dissero che l’opzione era il trapianto, non mi sentii per nulla coraggioso ad accettare. Di nuovo, la lucidità e la caduta di quasi ogni tentennamento mi si sono infilati dentro insieme all’oppressione. E come la prima volta, ho cominciato a ricercare in rete tutto quanto potevo sapere su trapianto, statistiche di riuscita dell’operazione, percentuali di sopravvivenza a breve e lungo termine e il racconto di esperienze dirette di chi ci è passato.

Anche nel periodo pre e post trapianto mi sono sentito dare del coraggioso e di nuovo ho vissuto questi commenti in maniera combattuta. Da una parte comprendo il desiderio di chi ci è vicino di dare in qualche modo il proprio supporto, ma dall’altra sentivo come questo termine fosse fuorviante.

Forse è perché ho problemi con il termine coraggio e la sua aura di romantico ardimento, considerando invece gli atti cosiddetti coraggiosi semplicemente azioni necessarie che per fortuna qualcuno si prende la briga di compiere.

Ad aver dimostrato davvero coraggio sono semmai le tre persone che mi hanno detto chiaro e tondo che in caso di necessità si sarebbero offerte di tentare la strada del trapianto da vivente. Questo significa assumersi un rischio alto sia nel momento dell’operazione, sia dover affrontare il dubbio di un qualsiasi tipo di complicanza sul medio e lungo termine. Rischi decisi per salvare un’altra persona e non se stessi. Eventi necessari ed estremi che portano fuori l’intimità di una persona e forse la sua visione di cosa sia giusto e sbagliato fare.

Io invece ho solo deciso di salvare me stesso in entrambe le occasioni, afferrando le opportunità che mi si sono presentate davanti. Non credo si tratti di coraggio ma di semplice istinto di sopravvivenza. Il coraggio, per quanto sia un concetto su cui ho idee contrastanti, è altra cosa.

Come dicevo a inizio post temo di non essere molto chiaro. Ma sono pensieri che mi frullano per la testa da anni e preferisco tentare di chiarirmi parlandone pubblicamente che rischiare che mi frullino il cervello.

4 commenti:

Avion ha detto...

Beh, più che coraggio, hai avuto fegato.
*ba-dum-tssh*

Gabriele Panini ha detto...

Forse nemmeno io riuscirò a spiegarmi bene, quindi ti chiedo scusa già da ora se ti sembrerò idealista, forse anche ingenuo, nelle mie convinzioni.
So di non avere idea di che cosa sia la malattia e di essere quello fortunato.

Io credo che il coraggio non liberi dai dubbi, né sopisca le paure. L'avere dubbi e paure non significa mancare di coraggio e non significa esserne privi se si fa semplicemente quel che è necessario.

Credo che la frase di Egbert sarebbe vera solo se, scegliendo di lottare, vi fosse la garanzia della sopravvivenza, nel qual caso, tutti sceglierebbero quell'opzione, eliminando la scelta.
Non è così.
Chi lotta può morire tanto quanto colui che si arrende. Chi si trova in quella situazione non è privo di scelta. Può arrendersi e morire, come dici, o lottare e rischiare comunque di morire. E' una scelta, questa, perché non tutti scelgono o riescono a scegliere la seconda opzione (il che non vuol dire che siano da giudicare negativamente, né lo sto facendo io in questo ragionamento).
Scegliere la speranza nonostante le paure e il rischio di fallire non è mancanza di coraggio, ma l'unica vera condizione in cui esso possa esistere.

Giorgio Salati ha detto...

Davide, io non ho mai avuto un problema del genere, e mi spiace sul serio per quello che stai passando. Ma ti posso dire come la penso.

Davanti a queste difficoltà, le reazioni possono essere diverse. C'è chi si lascia totalmente andare alla disperazione, chi perde la speranza, la dignità, chi va in giro a dire a chiunque di essere malato e lo usa come scusa per qualsiasi comportamento, chi perfino si suicida: non avere la certezza di una vita lunga e normale come la maggior parte delle persone, può far uscire di testa chiunque.

Poi però ci sono le persone che hanno il coraggio di continuare la propria vita con dignità, che nonostante gli ovvi momenti di disperazione si sforzano di non lasciarsi andare totalmente al vittimismo, di non essere un peso per chi gli sta vicino. Cercare di essere in qualche modo normali anche in una situazione estrema come questa, quando saresti anche giustificato a lasciarti andare alla disperazione. Anche solo lavorare in queste condizioni è sicuramente difficile. Ecco, credo che sia questo il coraggio di cui si parla in queste situazioni.

Probabilmente le persone che ti sono vicine hanno notato questa cosa, e magari vogliono anche spronarti a continuare così, a non mollare, a credere nella vita nonostante la malattia.

In bocca al lupo, e quando vuoi riparlare di fumetti fammi pure un fischio.

Anonimo ha detto...

Non è ora di cambiarlo, quell'header?