giovedì 18 aprile 2013

Return to Oz. O di quando volevano fare l’elettroshock a Dorothy.


Manca solo Michael Jackson
Dorothy pensa sempre a Oz. Sono passate alcune settimane dalla sua avventura, e non ha altro per la testa. I suoi zii sono preoccupati che l’ossessione della ragazzina non passi più. La portano da un luminare della scienza che decide di sottoporla alla sua cura elettrica. Il dottore è convinto che il cervello funzioni come un apparato elettrico. Quando fa i capricci basta regolarlo con le sue apparecchiature. Assicura che dopo la cura, Dorothy non penserà mai più a Oz. Quando dottore sta per far partire la macchina, Dorothy riesce a scappare e, caduta in un fiume, si risveglia a Oz. Ma il mondo non ha niente di meraviglioso, tutto sembra in rovina e spento...




Questa è in maniera sintetica la premessa di Return to Oz, uscito negli anni ’80 negli USA. Ora, per essere onesti, nel film non viene mai detto “elettroshock” e Dorothy non viene mai definita pazza. Però basta guardare tutta la parte ambientata nella clinica del buon dottore per rendersi conto che di questo si tratta. Certo, non siamo dalle parti di Qualcuno volò sul nido del cuculo, però la sequenza in cui Dorothy  dopo aver passato la giornata da sola in una stanza più simile a una cella, viene messa su una lettiga e bloccata con cinghie di cuoio, per essere poi portata nella stanza del macchinario, mette una discreta ansia. Siamo di notte, fuori c’è tempesta, il portantino e l’infermiera hanno due facce che sembrano uscite da un film di Lynch. Il dottore poggia gli elettrodi sulla testa della bimba e giusto un fulmine preclude l’accensione del macchinario.

E vi ho detto che durante la sua permanenza Dorothy vede una bambina che non si capisce bene se è un fantasma o un’allucinazione?

Ma se quello che succede in queste scene è un po’ inquietante, ad avermi colpito sul serio è la motivazione che il dottore da per l’uso dell’elett... della cura elettrica. Secondo lui la fissazione di Dorothy è solo una fantasia della bambina. In quanto fantasia che non si confà al mondo adulto, va eradicata dalla mente di Dorothy.

Mi pare una motivazione molto forte e che può colpire i bambini. La minaccia di vedersi cancellati sogni, desideri e fantasie per mano di un adulto che non si sa se non capisce i pensieri dei bambini, o se peggio li capisce ma li trova sbagliati e da curare.

Con l’elettroshock.

E il resto del film non è che sia una caleidoscopio di allegria e facezie. I cattivi son inquietanti. 


In particolare la strega Mombi, che ha l’hobby di collezionare teste. Ma anziché impagliarle, le tiene in vita in teche di vetro. E a seconda dell’umore con cui si sveglia ne indossa una piuttosto che un’altra. E oltretutto, dorme senza testa.


Anche il Nome King è inquietante, nel suo tentativo di passare dallo stato di elementale/spirito della terra a quello di umano/vivente. Lo vediamo attraversare varie fasi di trasformazione (con effetti speciali pre-digitale che mi pare reggano ancora bene) per poi fare una pessima fine sul finale. Perché il Nome King muore, e muore male. Con quella certa agonia per nulla divertente e rassicurante che, se avete mai visto Roger Rabbit, vi potrebbe ricorda quella del Giudice: per essere un film per famiglie/bambini, dura quell’attimo di troppo e indugia quell’attimo di troppo sulla voce straziata della vittima.

E questi, se avete visto il film, secondo me ve li ricordate
Ma se i cattivi, in quanto cattivi, ci sta che siano inquietanti, a me hanno colpito anche i compagni di ventura di Dorothy.

Senza andare troppo nello specifico del quartetto, mi interessa evidenziare come tre di questi specifichino lungo la pellicola il loro stato esistenziale. Perché tutti e tre non sono morti, ma non sono nemmeno vivi. 

Come dice Tik-Tok, il robot-armata, “Posso muovermi, posso parlare, posso pensare, ma non sono vivo”. Non è che se ne lamenti, lo dice solo perché così stanno le cose. Un po’ come Jack Pumpink Head e il Gump, personaggi messi in piedi arraffando cose più o meno a caso e che vivono grazie alla Polvere della Vita. Però pure loro non sono vivi nel vero senso della parola, ma stanno in un limbo tra l’essere vivente e l’essere morto. In particolare Gump, che in un momento di levità dice di ricordarsi il momento della sua morte, quando brucava tranquillo nel bosco e ha sentito uno sparo (Gump è una testa d’alce impagliata. Viene attaccato a un divano. I suoi compagni lo usano come mezzo volante. E’ un film particolare.).

A questo si aggiunga che Jack, che non sa bene chi sia ma sa di non avere una madre, chiede a Dorothy se può chiamarla mamma, anche se lui sa non esserla. Così, tanto per buttare bacinelle di allegria nel film. 

Insomma, diversi temi e diverse immagini che mi colpirono da bambino quando lo vidi la prima volta e che pure da adulto trovo, se non sempre efficaci, comunque suggestive.

Il tutto confezionato, per andare contro Il mago di Oz con Judy Garland, con un design in cui colori, costumi e luci fanno di tutto per non essere vivaci, allegri e scanzonati. Un patina di tristezza abulica sembra impregnare tutto il film e il mondo di Oz. Per certi versi sembra avere un qualcosa di post-apocalittico nella messinscena. 

Dorothy di Hokuto
Ammetto che mi ha messo una discreta voglia di leggere i lavori di Baum su cui è basato, cosa che ad esempio non mi è mai capitata guardando il film degli anni ’30.

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