martedì 27 luglio 2010

Pusher Trilogy di Nicolas Winding Refn

Si tratta di tre storie che vedono protagonisti spacciatori a Copenhagen. Prima di andare avanti, una precisazione.


Anche se viene chiamata trilogia si tratta di tre film autonomi legati tra loro per l’ambientazione, il tema e soprattutto lo stile. Non è cosa da poco, dato che potete così vedervi il primo sicuri di arrivare a una fine e se vi è piaciuto passare ai successivi. In tempi in cui trilogia è quasi sempre sinonimo di “un atto per ciascun film”, è tutto grasso che cola.

Quello che la rende una trilogia con una sua coerenza di fondo è lo stile utilizzato per la messinscena, che si distanzia anni luce dalla rappresentazione hollywoodiana e fighetta degli spacciatori e dei film dedicati alla droga. Qui chi spaccia non è un figo della madonna ben vestito con macchinone, villa e troia d’altro bordo. Qui troviamo persone comuni che abitano case squallide, si muovono in un ambiente banale e le loro troie sono solo prostitute tutt’altro che belle. Non credo sia un caso se i pochi personaggi dotati di soprannome facciano una fine pessima o sembrino i più scoppiati del gruppo.

Altro stacco violento rispetto ai cliché soliti: quando il colpo del protagonista, di solito un semplice acquisto di droga, va in merda, non c’è il guizzo di genio, la trovata fantasmagorica che accompagnata da dialoghi brillanti e inquadrature leccate lo tira fuori dai guai. No, qui sono cazzi acidissimi, una corsa furiosa per salvarsi la pelle sfruttando ogni aggancio, ogni scusa, qualsiasi cosa per arrivare vivi alla fine della giornata e portare avanti la propria squallida esistenza. E’ vero che il secondo finisce con una labilissima speranza di rinascita, ma il finale del primo è un macigno pesantissimo su qualsiasi illusione. E l’ultima inquadratura del terzo lascia un senso di vuoto e squallore difficilmente ignorabili.

Si, allegria da ogni fotogramma direi. Però è proprio questo che mi ha affascinato, questo tentativo di andare contro i cliche di un genere cercando di non suonare tronfi, moralisti o educatori. Secondo me ci riesce spesso, cadendo raramente in scene forzate o che ne diluiscono la forza narrativa. Il tutto è aiutato dal casting, sia per i protagonisti che risultano molto convincenti nelle loro parti, sia per le figure di secondo, terzo o ultimo piano, lontani da una certa omogeneità nei volti e "fotomodellizzazione" dei fisici che si trova nel cinema più mainstream che rende tutto plasticoso e finto. Qui al contrario si vedono corpi realistici e veri che rendono il tutto più credibile.

In sintesi, da recuperare.

p.s.

L’ho scoperta grazie al sempre ottimo blog Evil Monkey Says, bookmarkatelo.

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