giovedì 6 ottobre 2011

Al risveglio ci aspetta sempre la realtà

Di questi tempi nel 2008 mi svegliavo dall’anestesia del trapianto. Non è stato un bel risveglio.


Ancora prima di capire che ero sveglio e in ospedale, ho sentito la morsa di un gelo mai provato prima. Un freddo che al momento mi ha terrorizzato perché mi rendevo conto che veniva da dentro e non da fuori, ed era diffuso in tutto il mio corpo. In quei minuti ero convinto di non avere più sangue in circolo e che sarei morto sul posto. Solo dopo qualche giorno mi spiegarono che durante l’operazione la temperatura corporea viene abbassata di un paio di gradi per aiutare la procedura. Diciamo che ora so cosa provano Wesley Snipes alla fine di Demolition Man o i surgelati in genere.


Dopo qualche minuto però mi hanno iniettato una dose di fisiologica a temperatura corporea e il freddo è sparito, lasciando la porta spalancata al dolore. Considerate che per il trapianto l’addome viene tagliato con un incisione a Y rovesciata (o come dicono alcuni “E’ come il simbolo delle Mercedes. Senza il cerchio.”), poi i lembi di addominale vengono aperti a petalo e il tutto viene tenuto spalancato come la borsa di Mary Poppins per una decina di ore. Durante questo tempo roba viene tagliata e tolta e altra roba viene messa e ricucita. Un po’ come sventrare un’orata e infarcirla di erbe aromatiche. Solo che l’orata poi non si sveglia.


Per cui ho avuto giusto qualche secondo per godermi un certo teporino fisiologico per poi sentire tutto il dolore possibile e convincermi per la seconda volta in pochi minuti che stavo per morire. Medici e infermieri dicevano che andava tutto bene, ma dato che erano tutti in piedi, sani e con le frattaglie al loro posto, sul momento tendevo a non prenderli propriamente sul serio. Che ne sanno loro di cosa sto provando io? Un po’ come per i reduci di guerra che raccontano quello che hanno visto e patito. Tu, che al massimo hai combattuto in fila alle poste, gli vai a dire che “Si, come ti capisco!”. Si sta zittini e ci si sente in colpa.


Ma grazie a robuste dosi di morfina chiamate a gran voce dal sottoscritto, il dolore si attenuò abbastanza da permettermi di chiedermi dov’ero, perché c’ero e soprattutto chi cacchio ero. Perché, con mio sommo stupore, mi resi conto che non ricordavo il mio nome. Per fortuna la mia dottoressa preferita spuntò da un luogo migliore dicendo “Davide, è andato tutto bene”. Sinceramente non ricordo se lo dissi ma di sicuro pensai “Ah già, sono Davide Costa. Ho fatto il trapianto. Avevo il cancro.” E quando sai chi sei, il resto vien da se.


Attorniato da dottori e infermieri, capii di essere in terapia intensiva. Non ricordo un granché della stanza, un po’ per le robuste dosi di morfina, un po’ perché a causa dei dolori, dei drenaggi, delle flebo e altra roba che entrava e usciva da quasi tutti i miei orifizi, non riuscivo a muovermi un granché. Cercai di concentrarmi sulla parete bianca di fronte a me e sul semplice ma gradevole orologio blu con lancette nere che si trovava sul muro. Non ho idea di che ora fosse quando mi sono svegliato. E le 24 ore successive perdono di senso dato che passavo dalla veglia al sonno di continuo. Di sicuro ricordo che l’orologio aveva la brutta abitudine di spostarsi di continuo sulla parete. A volte era al centro. A volte lo vedevo in alto o in basso oppure in un angolo. Avrei pensato al simpaticissimo scherzo di un infermiere burlone, se non fosse che ogni tanto coglievo l’infingardo orologio proprio mentre si muoveva. A volte con movimenti secchi e lineari, altre volte curvando. In un paio di occasioni spiralando sornione. Iniziai a sospettare fosse in combutta col muro quando quest ultimo si tolse lo sfizio di cambiare colore. Aveva una predilezione per il verde e il giallo, ma non disdegnava tonalità tra l’arancione e il rosso, lanciandosi ogni tanto in audaci rosa confetto francamente terribili.


Con questa coreografia di sfondo, seguire i movimenti degli infermieri che mi coccolavano e si sinceravano capissi quello che mi stava succedendo, cosa mi pompassero dentro o mi succhiassero fuori, è stato non dissimile da un numero di broadway ad alto tasso lisergico. E si tratta delle allucinazioni meno fastidiose e inquietanti che mi hanno allietato nei primi giorni post trapianto.


Il problema è che per i 3-4 giorni successivi al risveglio mi è capitato spesso di avere incubi di ogni tipo. Incubi però che continuavano una volta che mi svegliavo. E a ogni risveglio per qualche decina di secondi non ricordavo più chi ero, dov’ero e perché c’ero. Poi mi tornava in mente tutto e mi ripetevo una decina di volte “Sono Davide Costa. Ho fatto il trapianto. Avevo il cancro.”. Di solito in silenzio per non svegliare il mio compagno di camera, ma qualche volta me lo sono detto ad alta voce. Non fossi stato pieno di flebo e tubi, mi sarei dato anche una pacca sulle spalle di incoraggiamento.


Ma non sono stati solo gli occhi a mostrarmi spettacoli funambolici. Spesso ho sentito musiche di vario tipo o voci che mi parlavano. Ho scoperto che il mio subconscio ha una predilezione per musica da camera con archi, possibilmente su uno sfondo di prati verdi e una carica di Mongoli che mi arriva addosso.

Le voci non dicevano nulla di intelligibile a parte il mio nome. Una notte, non so a che ora, ho passato una trentina di minuti a girare per la stanza con passo debole in cerca della fonte delle voci. Ho fissato per qualche minuto la bocca del mio compagno di stanza che, buon per lui, dormiva come un piombo con la bocca ben chiusa. Ho spento il cellulare. Gli ho tolto la batteria. Ho spento la televisione. Ne ho staccato la spina. Quando è arrivata un’infermiera per il giro notturno le ho chiesto se sentiva anche lei la voce. Prima di rispondermi è stata così gentile da tendere l’orecchio per qualche secondo. Poi mi ha rimesso a letto dicendomi che non c’era nessuna voce. Non è stato esattamente confortante.


Col passare dei giorni occhi e orecchi hanno ricominciato a vedere e sentire solo la realtà, con sprazzi improvvisi di onirismo lucido che mi coglieva all’improvviso. Il tutto è finito nel giro di due o tre settimane.


A distanza di anni però continua a capitarmi, anche se sempre più di rado, di svegliarmi di soprassalto la notte e di essere assolutamente certo di essere di nuovo in terapia intensiva. Per qualche secondo mi guardo intorno non sapendo dove mi trovo e non sapendo chi sono. Poi tutto torna, mi guardo la pancia toccandomi la cicatrice, mi ripeto qualche volta “Sono Davide Costa. Ho fatto il trapianto. Avevo il cancro” e torno a dormire.


Le cose vanno bene e tutto funziona. Non ci sono tracce di recidiva e il fegato fa le sue cose da fegato. Però mentirei se dicessi di essere esattamente tranquillo e sereno. Per fortuna oggi va meglio di ieri e sperabilmente peggio di domani.


So it goes.

2 commenti:

Dave ha detto...

Anche questo post è bellissimo, davvero. GG.

Bapho aka Davide Costa ha detto...

Denghiu.