venerdì 10 maggio 2013

C.L.A.W. - Braccio di ferro femminile, in costume.




Alcune donne si creano un alter-ego sopra le righe, con tanto di nome altisonante e costume in sintonia, e si sfidano a braccio di ferro di fronte a un pubblico pagante. Perché con la giusta attitudine, qualsiasi sfida può diventare uno spettacolo divertente.


Ne nasce CLAW: Collective of Lady  Arm Wrestlers, il collettivo delle signore che fanno braccio di ferro. Recuperano lo spirito da circo e da fiera itinerante di paese, sia nelle dinamiche che nell'estetica. Influenze che sono parte integrante della cultura pop americana, in alcuni casi in maniera eclatante come nel roller derby o nel wrestling professionale.

Ed è da quest'ultimo che arriva l'influenza maggiore. Ogni atleta interpreta un personaggio ben definito, quasi sempre sopra le righe, che sia divertente per il pubblico ma soprattutto per chi lo interpreta. Nascono così lottatrici come Pane Fonda, Ze Dirty Butcher, Sistah Slammer ed altre che si sfidano tra di loro per la cintura di campionessa. Il tutto sotto lo sguardo del pubblico in visibilio.

Perché la cosa piace, tanto che dopo la fondazione della prima lega ne nascono nel tempo altre in varie parti degli USA. Le fondatrici si sono prefissate qualche semplice obiettivo: promuovere il braccio di ferro femminile come modo per acquisire sicurezza, divertirsi e raccogliere fondi per organizzazioni no-profit. 


Obiettivi che mi pare vengano raggiunti. Leggendo e ascoltando qualche intervista, diverse atlete dicono di essersi accostate a CLAW proprio per combattere la timidezza o l'insicurezza e di aver trovato in questo strano spettacolo, che le costringe ad essere sul palco, una maggiore fiducia in se stesse. Sia per quello che accade sul palco, ma anche perché in questo modo vengono a conoscere spiriti più o meno affini ed entrano a fare parte di una comunità piccola e affiata. Senza dimenticare che, con buona pace dei cinici, riuscire a raccogliere soldi e/o far conoscere piccole realtà no-profit deve essere una bella soddisfazione.

Che il tutto avvenga grazie alla creazione di alter-ego sopra le righe, in uno strano miscuglio di stand-up comedy, lucha libre e improvvisazione teatrale, poco importa. Per quanto strana, una passione ci aiuta a resistere. 

C'è in lavorazione un documentario che dovrebbe uscire quest'anno. Qua il sito del documentario, con alcune belle foto, mentre qua il sito ufficiale di CLAW.

lunedì 29 aprile 2013

Tette e culi, ma anche no: MsChif, microbiologa di giorno, lottatrice di wrestling la notte



 Che a leggere il titolo del post uno pensa subito a qualche improbabile personaggio seriale. Invece MsChif, vero nome Rachel Collins, è una persona vera. Come veri sono gli infortuni che ha subito in una dozzina di anni sul ring.

Rachel Collins si è laureata come genetista e lavora come microbiologa presso un laboratorio di analisi a Saint Louis, in Missouri. Però per sfogarsi indossa i panni di MsChif e passa i weekend a combattere sul ring nello strano e stratificato mondo del wrestling professionistico americano.


MsChif si muove nel circuito indipendente, quello dove di soldi se ne vedono davvero pochi. Se avete visto The Wrestler con Mickey Rourke, vi sarete fatti un’idea della vita che fa un wrestler che non è parte della serie A (cioè, negli USA, fare parte della WWE) o che magari ne faceva parte e ora è costretto a combattere di fronte a una cinquantina di persone. Magari in una palestra del liceo. MsChif di fronte a poche persone ci ha combattuto un sacco di volte, dando sempre il massimo.



Ci sono tanti wrestler che lo fanno perché non riescono a passare al livello successivo. Magari non ne hanno le qualità. Magari non si sanno gestire. Ci sono altri invece che cominciano dal circuito indipendente per farsi un nome, imparare e guadagnare qualcosa mentre cercano in tutti i modi di arrivare alla WWE. Negli ultimi anni gente come CM Punk, Daniel Bryan, Austin Aires, Sara Del Rey e altri ci sono riusciti. Altri ci stanno provando, come El Generico.

Però ci sono altri che si muovono nel circuito indipendente perché a loro sta bene farlo. MsChif è una di queste, come ha sottolineato in alcune interviste. Il wrestling indipendente funziona un po’ come ogni circuito indipendente: meno soldi, meno certezze, più libertà. Un po’ come scrivere fumetti o fare musica: se entri all’interno di una major, devi sottostare a determinate regole. Se sei indipendente, fai un po’ come ti pare.

E MsChif, che lotta dal 2001, ha combattuto in Europa e in Giappone, ha detenuto diverse cinture di campionessa anche per lunghi periodi, si trova nella situazione di non voler perdere la libertà che il circuito indipendente le garantisce. SHIMMER, Ring of Honor, NWA sono alcune delle promozioni in cui si muove/si è mossa.

MsChif ha creato da se il proprio personaggio, unendo le sue passioni per film horror e musica metal estrema. Ne è uscita una sorta di banshee incazzosa che picchia come un fabbro ferraio. Sfruttando il suo passato di ginnasta e ballerina ne ha preso parti e le ha fuse nel suo repertorio di mosse, mostrandosi come una che cerca sempre di evolversi e innovare. Dal momento che il suo lavoro di microbiologa le paga le bollette, può godersi il wrestling più come una passione che come un lavoro.




Senza che questo vantaggio la renda meno attiva e prolifica. Come dicevo in apertura, si è infortunata diverse volte: menischi partiti, pezzi di lingua mozzicati via, spalle divelte, caviglie rotte. Più un paio di traumi cranici. Uno dei traumi le è capitato all’inizio di un match. Sul momento dice di non aver avuto paura, per il semplice motivo che non ricorda nulla del match. La paura le è venuta guardando il filmato, proprio perché non ricorda nulla di quanto è avvenuto dal trauma in poi.

E guardando i suoi incontri ci si rende conto di come MsChif sia una lottatrice che fa del wrestling (inteso come lotta) il suo punto di forza. Oltre ad essere attraente e a possedere un carisma particolare che esce nei suoi promo e nel rapporto col pubblico (e che mi ricorda un po’ Luna Vachon e un po’ Sherri Martel), MsChif mostra di essere dotata di capacità atletiche di tutto rispetto. Sia nel mosse con cui si lancia urlando contro gli avversarsi, ma ancora di più in quelle che accetta di subire.


La ragazza non si fa troppi problemi a trovarsi dalla parte sbagliata di lariat, powerbomb, piledriver, sia sul ring che al di fuori dello stesso, magari sul cemento o attraverso tavoli e scale. E sfruttando il suo passato di ginnasta e ballerina, si fa annodare come un pretzel in torture rack o boston crab che solo a vederle fanno tremare le mie vertebre.

Capacità atletiche, carisma e un aspetto piacevole. Tutto quello che serve a una donna per sfondare nel mondo del wrestling. Molti chiedono a MsChif perché non abbia ancora provato a entrare nella WWE (o nella TNA, la seconda, di molte lunghezze, promozione americana di wrestling) dove potrebbe, in caso di successo, guadagnare davvero dalla sua passione e dalle sue capacità.

E lei risponde che non le interessa. In parte perché non ha intenzione di smettere di fare la scienziata, un lavoro che ama e fa con altrettanta passione. Un amore nato grazie ai suoi genitori, in particolare al padre a sua volta scienziato. 

In parte perché, conoscendo il tipo di wrestler femminile che WWE e TNA portano al top, si rende conto che MsChif verrebbe quasi certamente rielaborata per andare incontro al tipo di immagine che tira di più: t’n’a. Ovvero, tits and ass, tette e culi. Questa formula riassume la visione che nel mainstream si ha per le lottatrici di wrestling: belle gnocche in vestiti il più possibile succinti che sculettano sul ring (e il t’n’a imperversa un po’ in tutto il mainstream: videogiochi, fumetti, cinema).





Attenzione: questa è l’idea che va per la maggiore e che, soprattutto esteticamente, viene pompata di più dalle grosse promozione. Si tratta appunto di un tipo di immagine, di personaggio, che viene scritto e spinto dai produttori. Un’idea che si scontra spesso con le reali capacità atletiche e di intrattenimento delle lottatrici che fanno parte dei roster di WWW e TNA (che, se ve lo state chiedendo, non sta per tits and ass, ma per TOTAL NON STOP ACTION). Vi si scontra perché a volte a essere spinte al top sono lottatrici che non hanno capacità, ma solo il look. Secondo MsChif è un trattamento che sminuisce la bravura, la determinazione e gli anni di mazzo che un sacco di ragazze si fanno e si sono fatte per imparare ad essere wrestler. Ed è un trattamento che preferisce non dover rischiare di subire.

Perché per MsChif il wrestling, anche se non è il suo lavoro principale, è qualcosa che merita di essere trattato con rispetto, come con rispetto vanno trattati gli uomini e le donne che decidono di rischiare la salute per intrattenere il pubblico con le loro mosse incredibili e  le loro storie improbabili.


Mai improbabili quanto la realtà.

giovedì 18 aprile 2013

Return to Oz. O di quando volevano fare l’elettroshock a Dorothy.


Manca solo Michael Jackson
Dorothy pensa sempre a Oz. Sono passate alcune settimane dalla sua avventura, e non ha altro per la testa. I suoi zii sono preoccupati che l’ossessione della ragazzina non passi più. La portano da un luminare della scienza che decide di sottoporla alla sua cura elettrica. Il dottore è convinto che il cervello funzioni come un apparato elettrico. Quando fa i capricci basta regolarlo con le sue apparecchiature. Assicura che dopo la cura, Dorothy non penserà mai più a Oz. Quando dottore sta per far partire la macchina, Dorothy riesce a scappare e, caduta in un fiume, si risveglia a Oz. Ma il mondo non ha niente di meraviglioso, tutto sembra in rovina e spento...




Questa è in maniera sintetica la premessa di Return to Oz, uscito negli anni ’80 negli USA. Ora, per essere onesti, nel film non viene mai detto “elettroshock” e Dorothy non viene mai definita pazza. Però basta guardare tutta la parte ambientata nella clinica del buon dottore per rendersi conto che di questo si tratta. Certo, non siamo dalle parti di Qualcuno volò sul nido del cuculo, però la sequenza in cui Dorothy  dopo aver passato la giornata da sola in una stanza più simile a una cella, viene messa su una lettiga e bloccata con cinghie di cuoio, per essere poi portata nella stanza del macchinario, mette una discreta ansia. Siamo di notte, fuori c’è tempesta, il portantino e l’infermiera hanno due facce che sembrano uscite da un film di Lynch. Il dottore poggia gli elettrodi sulla testa della bimba e giusto un fulmine preclude l’accensione del macchinario.

E vi ho detto che durante la sua permanenza Dorothy vede una bambina che non si capisce bene se è un fantasma o un’allucinazione?

Ma se quello che succede in queste scene è un po’ inquietante, ad avermi colpito sul serio è la motivazione che il dottore da per l’uso dell’elett... della cura elettrica. Secondo lui la fissazione di Dorothy è solo una fantasia della bambina. In quanto fantasia che non si confà al mondo adulto, va eradicata dalla mente di Dorothy.

Mi pare una motivazione molto forte e che può colpire i bambini. La minaccia di vedersi cancellati sogni, desideri e fantasie per mano di un adulto che non si sa se non capisce i pensieri dei bambini, o se peggio li capisce ma li trova sbagliati e da curare.

Con l’elettroshock.

E il resto del film non è che sia una caleidoscopio di allegria e facezie. I cattivi son inquietanti. 


In particolare la strega Mombi, che ha l’hobby di collezionare teste. Ma anziché impagliarle, le tiene in vita in teche di vetro. E a seconda dell’umore con cui si sveglia ne indossa una piuttosto che un’altra. E oltretutto, dorme senza testa.


Anche il Nome King è inquietante, nel suo tentativo di passare dallo stato di elementale/spirito della terra a quello di umano/vivente. Lo vediamo attraversare varie fasi di trasformazione (con effetti speciali pre-digitale che mi pare reggano ancora bene) per poi fare una pessima fine sul finale. Perché il Nome King muore, e muore male. Con quella certa agonia per nulla divertente e rassicurante che, se avete mai visto Roger Rabbit, vi potrebbe ricorda quella del Giudice: per essere un film per famiglie/bambini, dura quell’attimo di troppo e indugia quell’attimo di troppo sulla voce straziata della vittima.

E questi, se avete visto il film, secondo me ve li ricordate
Ma se i cattivi, in quanto cattivi, ci sta che siano inquietanti, a me hanno colpito anche i compagni di ventura di Dorothy.

Senza andare troppo nello specifico del quartetto, mi interessa evidenziare come tre di questi specifichino lungo la pellicola il loro stato esistenziale. Perché tutti e tre non sono morti, ma non sono nemmeno vivi. 

Come dice Tik-Tok, il robot-armata, “Posso muovermi, posso parlare, posso pensare, ma non sono vivo”. Non è che se ne lamenti, lo dice solo perché così stanno le cose. Un po’ come Jack Pumpink Head e il Gump, personaggi messi in piedi arraffando cose più o meno a caso e che vivono grazie alla Polvere della Vita. Però pure loro non sono vivi nel vero senso della parola, ma stanno in un limbo tra l’essere vivente e l’essere morto. In particolare Gump, che in un momento di levità dice di ricordarsi il momento della sua morte, quando brucava tranquillo nel bosco e ha sentito uno sparo (Gump è una testa d’alce impagliata. Viene attaccato a un divano. I suoi compagni lo usano come mezzo volante. E’ un film particolare.).

A questo si aggiunga che Jack, che non sa bene chi sia ma sa di non avere una madre, chiede a Dorothy se può chiamarla mamma, anche se lui sa non esserla. Così, tanto per buttare bacinelle di allegria nel film. 

Insomma, diversi temi e diverse immagini che mi colpirono da bambino quando lo vidi la prima volta e che pure da adulto trovo, se non sempre efficaci, comunque suggestive.

Il tutto confezionato, per andare contro Il mago di Oz con Judy Garland, con un design in cui colori, costumi e luci fanno di tutto per non essere vivaci, allegri e scanzonati. Un patina di tristezza abulica sembra impregnare tutto il film e il mondo di Oz. Per certi versi sembra avere un qualcosa di post-apocalittico nella messinscena. 

Dorothy di Hokuto
Ammetto che mi ha messo una discreta voglia di leggere i lavori di Baum su cui è basato, cosa che ad esempio non mi è mai capitata guardando il film degli anni ’30.

venerdì 8 marzo 2013

L’imbarazzo (più o meno) e l’accidentalità (incerta) di essere guariti (per ora).


Questo post non ha senso e non è divertente. Fate voi.

Tra le varie sensazioni, emozioni, percezioni che ho dovuto affrontare a causa di cancro e trapianto, ce n’è una che mi è montata dentro nel tempo. Sono più di quattro anni che mi hanno trapiantato. Più di sei dalla prima diagnosi di cancro. Magari ho passato del tempo a far finta di non sentirle. Però ultimamente sobbolle spesso. Non mi viene in mente un termine preciso con cui definirla. E’ un misto di imbarazzo, senso di colpa e profonda tristezza. Forse afflizione.

Questa sensazione si presenta soprattutto quando ho a che fare con chi ha perso qualcuno a causa del cancro. O magari ha una prognosi brutta. Non credo sia un caso se scrivo questo post qualche giorno dopo un funerale.

Per una serie di casualità, mi capitano questi incontri più spesso di quanto vorrei.  Quando arriva il momento delle condoglianze e mormoro le parole “Mi dispiace”, mi accorgo che il dispiacere che sento non è solo per la perdita che il mio interlocutore ha subito. In testa la frase completa suona più o meno “Mi dispiace per la tua perdita, mentre io sono ancora vivo. Scusa. Non l'ho fatto apposta.”

In maniera logica e obiettiva mi rendo conto che non ho avuto alcun ruolo nella morte degli altri. Ma non ho avuto nemmeno un ruolo determinante nel mio essere ancora qua. Temo però che per diverse persone trovarsi davanti uno che non è più malato, magari a ridosso del proprio lutto, sia comunque difficile. Un po’ come chi vede un figlio tornare dalla guerra e abbracciare i genitori, mentre il proprio lo si può solo piangere sopra una bara. Mi sembra di sottolineare, con la mia presenza, l’assenza e la perdita altrui.

Dubito sinceramente possano addossare colpe a chi sopravvive. Magari è solo rabbia che cerca un punto su cui sfogarsi, più che comprensibile e umana. O sentire di essere finiti dalla parte sbagliata della bilancia, senza alcun motivo o ragione.

La completa mancanza di senso, logica e motivi validi per cui alcuni muoiono e alcuni sopravvivono, mi lascia sempre più un senso di imbarazzo. Fare le condoglianze a un genitore è sempre straziante. Farle con la consapevolezza di essere ancora qua solo per una questione di fortuna toglie qualsiasi maschera, interpretazione e finalità dalla realtà. Mi sento del tutto inadeguato alla situazione e mi ritrovo a rimuginarci sopra per giorni, chiedendomi se non sarebbe meglio che a certi funerali non mi ci presentassi proprio. 

Sono sensazioni e conseguenti labirinti di pensiero che con la logica hanno ben poco a che vedere. 

Questo perché sopravvivere a un trauma è spesso dovuto a una enorme componente casuale. Se io sono riuscito a farcela, è perché tutta una serie di eventi al di fuori della mia portata si sono incastrati nella maniera corretta.

Il chemioterapico che ho assunto per alcuni mesi è stato approvato poche settimane prima del ritorno del mio cancro. Su alcuni pazienti non ha funzionato, su altri come me si. Il mio stato di salute mi ha reso eleggibile per essere inserito nelle liste d’attesa, fatto del tutto non scontato. Qualcuno è morto nel periodo giusto, alla distanza giusta dal mio centro trapianti. Il suo fegato si è scoperto compatibile col mio corpo, tra tutti quelli che erano nella lista nello stesso momento.  

Ho avuto culo. Fino a oggi. Altri non lo hanno avuto.

Non c’è un motivo preciso per cui sia andata così. Non c’è mai un motivo preciso. Una ragione corretta al 100%. Un senso compiuto. Una conclusione che soddisfi del tutto.

Non ce l’ha nemmeno questo post.

giovedì 28 febbraio 2013

Gene Wilder sulla creazione di Willy Wonka


Vi ho già parlato di Gene Wilder e di come dalla sua autobiografia esca che oltre ad essere attore sia anche uno che le storie le sa raccontare. Ci sono un paio di aneddoti che lo esemplificano molto bene. Li ho trovati raccolti a questo indirizzo, sul sito Letters of note (che vi consiglio di gironzolare perché i contenuti sono spesso molto interessanti). Gli esempi mi sono piaciuti così tanto che ho deciso di tradurli e farci un post. Non sono un traduttore per cui spero ne escano bene.

Wilder consiglia come mostrare Willy Wonka per la prima volta, agli spettatori e ai personaggi:



“Quando faccio la mia prima apparizione, mi piacerebbe uscire dalla porta portando un bastone e poi camminare verso la folla zoppicando. Dopo che la folla vede che Willy Wonka è uno storpio, bisbigliano tutti tra di loro e poi si zittiscono di colpo. Mentre cammino verso di loro, il mio bastone affonda in uno dei sanpietrini su cui cammino e rimane li bello dritto, senza aiuto; però io continuo a camminare, finché non realizzo che non ho più il mio bastone. Inizio a cadere in avanti, e appena prima di schiantarmi a terra, faccio una bellissima capriola e rimbalzo in piedi, tra gli applausi di tutti.”

Interrogato sul perché, Wilder spiegò: “Perché da quel momento in poi, nessuno saprà se starò mentendo o dicendo la verità.”

E qua sotto invece una lettera in cui dice la sua sul costume di Wonka.

Marylin Manson, francamente, me lo sgrulla.

“23 Luglio

Caro Mel (Mel Stuart, il regista. ndt),

Ho giusto ricevuto i bozzetti del costume. Ti dirò tutto quel che penso, senza censura, e tu scegli dalle mie idee quello che ti piace.

Suppongo che il designer abbia preso le sue ispirazioni dal libro e non sapesse, giustamente, chi interpreterà Willy. E penso che, per un generico personaggio, siano bozzetti deliziosi.

Mi piace il pezzo principale - la giacca di velluto - e intendo mostrarlo col mio bozzetto dello stesso preciso colore. Però ho aggiunto due grandi tasche per ammorbidire il taglio snello e femminile. (Anche in caso di qualche oggetto scenico.)

Penso inoltre che il panciotto sia appropriato e delizioso.

E adoro anche la camicia bianca e fluente e i guanti bianchi. E la fodera interna dal colore più chiaro della giacca.

Quello che non mi piace è la precisione con cui questo costume precisa il tempo e il luogo.

Non m’immagino Willy come un eccentrico attaccato al suo completo domenicale da Dandy del 1912 e lo indossa nel 1970, ma solo come un eccentrico - per cui non c’è modo di sapere cosa farà o dove riesca mai a trovare il suo vestiario - eccetto che gli calza curiosamente: Parte di questo mondo, parte di un altro. Un uomo vanesio che sa quali colori gli donano, e, con tutte le stramberie, ha un buon gusto curioso. Qualcosa di misterioso, e indefinito.

Non sono un ballerino provetto che saltella in giro con piccoli passetti. Per cui, come vedi, ho suggerito di eliminare i pantaloni alla Robert Helpmann. I calzoni alla cavallerizza per me si addicono di più a un maestro di danza. Però pantaloni che erano una volta eleganti e ora sono quasi cascanti - cascanti a causa della preoccupazione con cose più importanti - fanno personaggio.

Pantaloni color verde melma fanno ribrezzo. Però pantaloni color sabbia sono altrettanto discreti per la tua cinepresa, ma di buon gusto.

Il cappello è bellissimo, ma farlo due pollici più basso lo renderebbe più speciale.

Inoltre una fascia di feltro blu chiaro per il cappello coordinata col cravattino vaporoso dello stesso blu chiaro mostra un uomo che sa come valorizzare i suoi occhi blu.

Coordinare le scarpe con la giacca è lezioso. Coordinare le scarpe col cappello è di gusto.

Spero vada tutto bene. Ci sentiamo presto.

Coi migliori auguri,

Gene.”

Mi piacciono questi esempi. Sottolineano come un film non sia semplicemente una sceneggiatura, ma il risultato della collaborazione di tutti quelli che vi partecipano e ci mettono del proprio per poter raccontare una storia.

In caso non sappiate a che scena si riferisce il primo aneddoto, o aspettate le feste natalizie o ve lo guardate qua sotto:

venerdì 8 febbraio 2013

Timecrimes - Los Cronocrìmenes

 Un piccolo film spagnolo dedicato al viaggio nel tempo. Budget scarsissimo, quasi totale assenza di effetti speciali, quattro attori, praticamente due location. Fantascienza con poca azione, per certi versi un film intimista. E, indovina un po’ mio amico sveglione, parlo di un film che ho già visto, per cui potrei spoilerare. O forse no.

SPOILER!
Hector e sua moglie stanno finendo il trasloco in una nuova villetta isolata. Hector si diverte a osservare i dintorni con un binocolo. Vede un silo di cui non conosce il contenuto e una bella ragazza nel bosco, che gli mostra le tette. Quando la moglie si assenta, Hector va in avanscoperta. Si ritrova braccato da un uomo col volto celato da bende rosa. Cerca rifugio nel silo. Si ritrova sbalzato indietro nel tempo.

Il film dura poco meno di 90 minuti e li sfrutta tutti, mantenendo un ritmo bello pimpante, e riducendo al minimo gli spiegoni inevitabili quando si parla di viaggio nel tempo.


"Ecco come funziona uno spoiler"
Data la premessa, ci viene presentato il classico paradosso temporale visto e stravisto in varie declinazioni filmiche. 

Però a rendere il film a mio avviso interessante non è tanto la componente legata alla logica e credibilità (o meno) del viaggio temporale, ne i colpi di scena che lo costellano.

 Quello che mi è piaciuto molto è come il regista/sceneggiatore renda palpabile la montante disperazione che Hector prova quando si trova a viaggiare nel tempo per rimettere ordine ai propri casini. Perché Hector non ha nulla dell’eroe d’azione: è di mezza età, c’ha la panza, i capelli scarseggiano ed è tutt’altro che una mente brillante. Però lungo la storia mostra comunque una determinazione crescente quando capisce di dover salvare ciò che ama.


"Fottuto spoiler, ti inculerò a sangue."

Così se all’inizio la storia pare quasi una commedia, con Hector che va in cerca di tette al vento, andando avanti (e indietro nel tempo), i toni si mischiano col thriller, con lo slasher e alla fine ci si impantana in territori foschi di fatalismo. Ogni tanto si ride, ma alla fine quello che rimane è la disperazione quieta di un uomo che ha provato a correggere gli errori del proprio passato, fallendo. 

"Ti dico che è là, dopo le tette!" "Non vedo nessuno spoiler, sveglione."


Per cui se cercate un film più vicino alle logiche action hollywoodiane, andate a vedere Looper che non è affatto male e ha un paio di punti di contatto con Timecrimes. Poi se siete curiosi recuperatevi questo, se non altro per vedere come da premesse simili si possano tirare fuori due storie molto diverse per tono e atmosfere. E se vi ispira, per ora lo trovate persino su Youtube:

martedì 29 gennaio 2013

Persone che fingono di avere il cancro e altre malattie pese

Ci sono persone che fingono di essere malati gravi, e usano internet per portare avanti questa pantomima.

Ne ha parlato in un bel pezzo Elvezio sul suo blog, trovate il pezzo qua (e vi consiglio di girarvi un po' il blog perché di pezzi interessanti ne trovate diversi, su argomenti disparati ma che vedono sempre, a mio modo di vedere, l'umanità delle persone al loro centro).

Della sindrome di Münchausen ne ho sentito parlare fin da ragazzino, avendo una madre infermiera pediatrica che purtroppo ha moltissime storie da raccontare accumulate in 40 anni di lavoro.

Avevo invece sottostimato le opportunità che internet può dare alle persone affette da questa sindrome. 

Nonostante ricordi un paio di casi più o meno simili in una comunità online che ho frequentato per quasi 10 anni (comunità che non ha nulla a che vedere con malattie di alcun genere), non avevo mai letto nel dettaglio di esempi andati avanti per così tanto tempo e che hanno influenzato la vita di tante persone, in maniera purtroppo dolorosa. 

A fine lettura rimango a chiedermi cosa possono provare i veri malati di cancro nei confronti di quelli affetti dalla Münchausen.  Perché se a fingere fossero semplici truffatori, chi è stato preso in giro si troverebbe se non altro nella situazione di non aver il minimo rispetto nei loro confronti. Ma di fronte alle azioni di chi è comunque malato, anche se in maniera impalpabile e difficile da comprendere come in ogni tipo di disturbo mentale, penso ci si trovi in una situazione complessa da gestire per quanto riguarda le emozioni. O forse dipende dall'empatia che si prova per il prossimo.

Come dicevo è una lettura interessante, se fate parte del club tl:dr è un peccato e per una volta vi invito a combattere il vostro deficit d'attenzione.