Triple Threat Watch: in cui vi parlo di tre film in qualche modo collegati tra loro. Qua trovate l'intro al TTW, e qua sotto la seconda entrata, dedicata a Mad Max del 1981. Qua invece la prima parte.
Guardando Mad Max: Road Warrior
mi ha colpito da come il regista, George Miller, sia riuscito a fare
un film molto diverso dalla prima pellicola pur mantenendone intatto lo spirito
e anzi irrobustendone il mito senza andare ad appesantirlo. Azzardo un
paragone: per certi versi c’è la differenza che troviamo tra l’Alien di Ridley
Scott e l’Aliens di James Cameron. Si tratta sempre di xenomorfi, ma il secondo
film è più grande, più chiassoso e più cool.
Gran parte del merito lo si
deve a scenografi, costumisti e maghi della modificazione dei mezzi. Così come
nel primo film, non sono certo la trama o la sceneggiatura, entrambe risicate ed essenziali, a
renderla una storia affascinante. Se a distanza di 30 anni ne parliamo ancora,
lo dobbiamo alla capacità di Miller di mettere in scena immagini forti, e non
mi riferisco solo alla violenza di certe morti o alla perizia degli
inseguimenti.
Di nuovo ce l’ho con
l’efficacia con cui i personaggi sono resi caratteristici, curiosi e,
incredibilmente, credibili in questo mondo senza più regole civili. Tra tutti
giganteggia senza dubbio Lord Humungus, colosso dal fisico da bodybuilder, poco
vestito con perizoma in cuoio e borchie, dal volto sempre celato da una
maschera da hockey tra i cui fori intravediamo cicatrici. Di lui sappiamo poco
o nulla. E’ a capo di una gang di criminali folli e, per quanto ferino e
violento, sembra abbia un suo codice d’onore: quando decide di conquistare
un’oasi in cui si trova una pompa di petrolio, da la possibilità ai suoi
abitanti di scappare senza decimarli. A giudicare dal suo revolver e pochi
dettagli come una medaglia e una foto, potrebbe essere un militare che la
guerra e l’apocalisse hanno reso folle, o solo disperato nel trovare un ordine a cui votarsi. Ma sono cose che lo
spettatore può solo desumere, non ci sono pippotti, flashback o infodump di sorta.
Come il vero rapporto che corre
tra Humungus e Wez, il suo secondo in campo, il suo “dog of war” che ha preso
in antipatia personale Max. Wez, con la sua cresta punk, la balestra da polso e
la corazza da football non perde tempo con ultimatum e proposte, tanto meno
quando gli ammazzano il compagno di viaggio, biondino ed efebico, per certi
versi una versione rinnovata del Bubba del primo film. E se nel primo Mad Max l’eventuale omosessualità della gang veniva solo suggerita, qua gli accenni
sono allo stesso tempo sottolineati ma non esplicitati. Non solo Wez e il
biondino sembrano una coppia, ma Humungus ha dato nomi precisi ai suoi uomini,
tra la divisione “Gayboy berserkers” e quella “Smegma Crazies”. Certo, il tono
del film è corroborato da una sottile ironia e umorismo, ma tra immaginario da
biker inguainato in cuoio e borchie e il rapporto d’odio amore tra i loro
membri, credo che il sottotesto sia voluto e cercato.
L’equilibrio tra sottile
umorismo e la ferocia della violenza inscenata viene giostrato molto bene lungo
tutta la pellicola. Per quanto esplicita, cruda e abbondante mi pare che la
violenza non passi mai dalla parte del “così esagerata da essere divertente e
innocua” ma mantenga sempre bene la sua valenza di cosa disturbante, fastidiosa
e sbagliata. In questo i momenti divertenti sono ben dosati, in buona parte
sulle spalle del comic relief della pellicola, quel pilota dell'autogiro che
tenta di derubare Max all’inizio del film, scoprendo subito di avere avuto una
cattiva idea. Ennesimo personaggio, per altro, che grazie a un costume
azzeccato, un mezzo di locomozione ridicolo e una dentatura apocalittica,
rimane ben definito, nonostante di lui non si sappia nemmeno il nome ne,
tantomeno, il passato. In questo aiuta la mimica e recitazione del suo
interprete, mai davvero comica o buffa ma sempre quel tanto fuori sincrono
rispetto al dramma cui assiste da aggiungere un tocco di ridicolo al grottesco
che lo circonda.
Le interpretazioni sono
un'altra freccia all’arco di Miller, che capisce bene di non avere in mano un
dramma esistenzialista ma un film d’azione i cui personaggi non vanno per il sottile nemmeno quando dichiarano le loro azioni. Lord Humungus che, armato di
microfono, si presenta agli abitanti dell’oasi con fare enfatico cercando di
essere un uomo ragionevole, come un politico a un comizio, oppure Wes che
soffia e sbraita come un animale sono i nipoti degenerati del Toecutter del
primo film. Per contralto abbiamo Max, sempre dimesso, sottotono, quasi spento,
ingrigito e impolverato da anni passati sulla strada in cerca di benzina e poco
altro.
Se nel primo film Max è solo un
vigilante, nel secondo non è neppure più questo. È un uomo solo, senza niente,
in cerca di niente. Quando incappa nell’oasi è interessato solo alla benzina,
ed è quello che chiede come pagamento per aiutarne gli abitanti. Se combatte
prima con Wez e poi con tutta la gang di Humungus, è come mercenario. E quando verso la fine del film si unisce ai villici, lo fa solo perché non ha altra
possibilità di sopravvivere. Nonostante i momenti leggeri del film, il Max di
Road Warrior è forse ancora più cinico, disilluso e senza speranza del primo. Si ha l'impressione che a muoverlo non siano ne il senso di giustizia e neppure più quello di vendetta ma solo la sopravvivenza.
Ma possiamo parlare di Road
Warrior senza parlare di auto, inseguimenti e azione? Come nel primo, si tratta
di elementi che ancora reggono benissimo il passare del tempo e che, di nuovo,
hanno la loro ragione d’essere come momenti per portare avanti la storia e
farci capire meglio chi siano davvero i personaggi, non solo sboronate per gli
stuntmen, che comunque si meritano ogni plauso, o un vezzo di Miller. In un ambiente in cui o guidi o muori e in cui la benzina equivale alla vita, avere cilindri e saperli usare equivale ad avere la spada e saperla calare nel modo giusto. E come
nel primo abbiamo di nuovo quelle cacchio di accelerazioni dei frame che
rovinano un po’ il tutto. Una scelta che davvero fatico a capire ma è solo
qualche secondo in una novantina di minuti tiratissimi, in cui il ritmo
funziona a mio avviso meglio rispetto al film del ’79, lasciando poco spazio
per respirare, e quando si respira lo si fa sempre chiedendosi cosa sta per
capitare.
I mezzi, così come i costumi,
sono poi il fiore all’occhiello della pellicola: auto e moto modificate in ogni
modo per affrontare i rigori del deserto e degli scontri. Mezzi che per quanto
risultino sopra le righe danno comunque l’idea di essere letali e coerenti con
la follia del tempo in cui vivono i loro piloti, sempre a un passo dal rimanere
senza benzina e quindi senza vita. Una coerenza estetica che ha lasciato, come
dicevo, il segno e ha colpito creativi di tutto il globo e di vari ambiti.
Tralasciando la miriade di film che si sono ispirati a Mad Max, e senza
approfondire quanto i creatori di Ken Shiro abbiano preso dai cattivi di Max
per il loro esperto di arti marziali, mi piace ricordare l’influenza che Miller
ha avuto nel mondo del wrestling.
Magari li conoscete come Legion
of Doom, magari li conoscete come Road Warriors, oppure con i loro nomi singoli
di Hawk e Animal. Fatto sta che non hanno mai nascosto dove hanno trovato
ispirazione per la loro gimmick, a partire dal nome scelto, e sono diventati
uno dei tag team più blasonati di sempre nel wrestling. Vi lascio, come bonus
musicale, con il loro theme (se ve lo state chiedendo, si, i wrestler hanno la
sigla, quando entrano sul ring), e vi aspetto domani col terzo post per il
nostro Triple Threat Watch. Riuscirà Max a superare il suo nemico più feroce,
il PG-13?
Nessun commento:
Posta un commento